La parola Arte è ormai così inflazionata che può fare riferimento a tutto e a niente. Quando l’uso di una parola così importante assume un significato tanto diverso da quello suo tradizionale è successo qualcosa su cui bisognerà riflettere . E’ la spia di cambiamenti profondi che si sono determinati nei rapporti socio culturali.
Nel trascorrere del tempo questo termine è diventato così ambiguo e indeterminato che diventa difficile ricordare l’antica accezione. Come conseguenza si finirà di non percepire la perdita di una parte importante dell’identità che ha nutrito la nostra storia e cultura.
Si parla d’ arte come di un “indotto che porta denari”, della necessità di fare sistema per non essere tagliati fuori dai paesi che sull’ “arte “ investono, di quadri che diventano capolavori solo in riferimento all’alto prezzo di vendita Diciamo la verità se un quadro si vende a 100.000 Euro è solo un bel quadro , se si vende a 1.00.000 di Euro allora è un capolavoro . E poco importa se a determinare questi prezzi siano ricchi isterici che giocano sull’arte come su qualsiasi altra merce immessa nel mercato. Il valore mercantile fa premio su quello intrinseco dell’opera. La maggioranza dei critici, salvo virtuose eccezioni, ha finito per riconoscere il primato del mercato ritagliando per se solo il ruolo di supporto e di certificazione.
Questo è un sistema corrotto che produce un danno etico molto rilevante al quale non si presta la dovuta attenzione dato che fa girare tanto denaro: Il famoso indotto che torna utile sia ai privati che alle Amministrazioni.
Dell’Arte si è perduta la cognizione, del denaro No.
E’ quindi tutto perduto? Non credo: i pittori veri sono navigatori in solitario e sanno portare la loro imbarcazione in porto anche quando il mare è tempestoso.
Per quello che mi riguarda vorrei suggerire, a chi guarda i miei quadri, di non pensare al loro valore venale, ma di avere lo stesso atteggiamento di pazienza e d’attesa che si ha quando al cinema si entra in sala a proiezione già cominciata: guardare le prime sequenze di una storia che ancora non si conosce, cercare di capire qualcosa dall’ambientazione scenografica, oppure dai personaggi che compaiono sullo schermo senza sapere se sono gli interpreti principali o solo di secondo piano nella storia del film, non sapere nemmeno se siamo all’inizio o verso la fine.
E’ come nella vita, dove ognuno di noi entra a spettacolo già iniziato. Senza fretta, nel tempo che ci è messo a disposizione, finiremo per conoscere bene dove siamo.
Adesso vengo al tema che dà il titolo del mio intervento
Lo stato delle cose
Contano ancora il talento, la forza espressiva, la ricerca solitaria, virtù che hanno sempre indicato il valore di un artista, quando si è deciso che non sono più di moda?
E’ sorprendente che in questa Italia, sempre divisa tra bianchi e neri o rossi e azzurri, si sia trovata un’inaspettata convergenza nel campo dell’arte: mettere fuori gioco tutti quegli artisti che non accettano di condurre la propria ricerca per conto terzi e che soprattutto non amano operare secondo regole troppo diffuse.
Date un’ occhiata a quei giornali che rappresentano opinioni e interessi contrapposti; sfogliatene le pagine e confrontatele: dall’economia alla guerra, dai problemi dello stato sociale al libero mercato non ci sono punti di vista tra loro conciliabili. Bisogna arrivare alle pagine della cronaca per vedere sfumare le contrapposizioni e arrivare, infine, alla pagina dedicata all’Arte per vederle del tutto scomparire.
Si dice che l’arte non può appartenere né agli uni né agli altri; essendo universale è, di fatto, un bene comune che per interessi di parte non si può tirare per la giacca.
Meno male: finalmente riconosciamo un valore condiviso persino di più della bandiera e del concetto di patria.
Sarà proprio così?
A dire la verità dentro le belle parole si sono infiltrati i numeri, e così il valore dell’arte si declina solo sulle quantità che essi sono in grado di rilevare.
La stessa affermazione poi, secondo cui l’arte appartiene a tutti, esprime una semplificazione intrisa di retorica e ambiguità.
L’opera d’arte, creazione solo del suo autore, appartiene a chi sa evocarla, riconoscerla e immaginarla: è viva e necessaria fino a quando produce dibattiti e riflessioni che aiutano gli uomini a confrontarsi con i propri e gli altrui convincimenti; diventa inutile ed inerte quando, per riconoscerne il valore, ci si affida ai prezzi raggiunte nelle aste o, come in una sorta di auditel, al numero dei visitatori di una rassegna ben sponsorizzata.
In tempo di elezioni, si rivendica la “par condicio” come sola condizione per mettere equamente a confronto le diverse opinioni, per offrire ai cittadini la possibilità di scegliere tra le varie proposte.
Ma nel settore delle arti figurative (oggi si preferisce, con una buona dose d’ insensatezza, chiamarle visive) esiste ancora qualcuno, a livello istituzionale, che si faccia carico di pretendere pari opportunità per le diverse tendenze dell’arte contemporanea?
Pare proprio di No. A Napoli come a Roma, a Roma come a Firenze, si propongono sempre gli stessi personaggi tanto da far sembrare il panorama artistico italiano poco più di un teatrino virtuale:
si è cominciato, prima a Capodimonte, poi alla Galleria Borghese, infine all’Accademia di Firenze
(in occasione della presentazione del David di Michelangelo restaurato) a esporre le opere dei cosidetti nuovi maestri vicino ai capolavori dell’arte antica. Non certamente per stimolare un impossibile confronto; ma piuttosto per certificare oltre ogni ragionevole dubbio, facendo diventare normativa una celebre e provocatoria teoria di Duchamp, il carattere incontrovertibile di opere d’arte e questi lavori.
I funzionari ministeriali, gli assessori, e tutti coloro che, in qualche modo, sovrintendono al delicato incarico di promuovere e diffondere l’arte e la cultura non hanno il dovere di essere degli esegeti. Spesso sono convinti di amare l’arte senza avere la capacità di riconoscerla.
Il compito di chi ha responsabilità istituzionale dovrebbe essere principalmente quello di promuovere il confronto delle idee e delle tendenze, di sorvegliare affinché non sia penalizzato chi lavora in solitudine, di non fidarsi sempre di consiglieri astuti e conformisti che conoscono bene l’arte della seduzione e che hanno in tasca un metro, ancora una volta, pieno di numeri: quelli indicati dal mercato.
Alberto Sughi
Roma, 09 Nov 07
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