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Mario Aversano,

La Vita nova come prologo alla Commedia

Alla Vita nova, si sa, le belle arti non hanno apparecchiato grazioso loco quanto alla Commedia. In compenso molto e da tempo se ne intrigano gli ingegni letterari, con apici di interesse che da ultimo ruotano con la fervidezza maggiore nell'ambito della filologia testuale. Nondimeno, a sfida d'ogni più strenuo lavoro indagativo, e del bersaglio della "scientificità" a cui gli studiosi mirano, il libello resta a oggi quale Sughi l'ha percepito in limine alle sue "traduzioni" figurative: enigmatico più che ogni altra opera di Dante. Non nel senso, però, che tale Dante l'abbia pensato e fatto: l'enigma tocca solo una parte, quella subiecti. E le responsabilità non mancano. Un approccio dignitoso, e senza troppi divari tra il gradimento e la comprensione del "testo", non può prescindere dalla ricerca del prima e del dopo "intratestuale"(dell'intero corpus dantesco), e delle combinazioni "intertestuali" (i punti di riferimento esterni, le cosiddette fonti); e in verità la marcia per queste due vie non langue. Ma, a conti fatti, gli interpreti non appaiono davvero persuasi che quel marciare sia obbligatorio (mentre invece tale dovrebbe essere fin nell'ectodica, per lo studio e la promozione delle lectiones), e che l'attendibilità dei giudizi abbia rapporto diretto con la completezza delle istruttorie semiotiche. Noi scontiamo ancora un quarantennio di condiscendenze alla "semiosi illimitata", la quale rende i critici, a volte loro malgrado, "pretestuali" come non sono gli stessi operatori visivi.
Una ricognizione in tema iscriverebbe il condursi di Alberto Sughi, a me sembra, tra quelli meno corrivi alle "aperture" e ai lassismi: i dipinti come gli studi che egli ci offre, con tutte le libertà che decide di prendersi e gli aiuti che ne cava per l'organizzazione dell'immaginario, nella sostanza più intima non rivelano cedimenti alla "deriva dei sensi". Egli accosta l'Alighieri con ogni scrupolo, ne ama i ritmi e i vocaboli e desidera coglierne il significato, ma quando "si perde" lo dichiara, e non perciò ripiega sulle posizioni più comode della ritentiva; né vedo che ai bilanci del proprio accompagnarsi con il
poeta egli deliberi mai un esito arbitrario dalla lettera: nonostante le apparenze.
Un esempio. A qualcuno potrebbe non garbare che Sughi cinga la Beatrice di Tanto gentile d'una veste di un colore che non si avvicina né al "sanguigno" dei nove anni, né al "colore bianchissimo" dei diciotto menzionati nel prosimetro; e che neppure la incroci con un altrui da salutare, attento a ciò che de la sua labbia si mova, e anzi collochi il suo "fedele" come a parte, con un volto tra il pensoso e il malinconico, invece che adorante e inebriato dell'apparizione. Queste osservazioni proprio alla buona (da lettori di media stazza, avrebbe detto Gianfranco Contini), non sfiorano chi ha conoscenza non labile del componimento in causa. Peraltro esso nulla dice dell'abito dell'angiola; e quando un che ne volessimo dedurre, magari dal verso 7, i colori andrebbero nel vago della benignità e dell'umiltà: "benignamente d'umiltà vestuta". Il sonetto, poi, cade nel tempo che Beatrice nega all'innamorato il suo "dolcissimo salutare". Sughi è dunque alieno dal fare di testa propria, e mostra intelligenza e sentimento - nonché dello "spirito" del libello (che poi più interessa) - degli effetti di quel diniego, se non anche del "gabbo" e d'altro.
Allora la mia "semiosi obbligata", calda di postlegomeni al commento del Paradiso e del Purgatorio, incappa in un'altra occasione di provare la sua utilità, almeno per cenni. Essa consiglia di muovere dagli unici dati acquisibili con buona certezza, che sono quelli statistici. Il primo quanto all'evidenza ha del singolare. Mai in Dante la continuità narrativa è affidata con l'"ossessione" che si riscontra nella Vita nova a dei lemmi temporali, quattro in tutto: il Poi, il Dopo, il Poscia e l'Appresso. L'autore li dispone all'inizio di ben venticinque capitoli, dei quarantadue in cui il libello è suddiviso, dall'anno dell'edizione del Barbi (1907). Un raccontare così cadenzato è fatale che si trovi esposto a riserve e imputazioni. Che non sono mancate: d'impaccio, di tipica inesperienza giovanile nel governo dei passaggi e dei raccordi. Per alcuni, poi, la causa andrebbe cercata anche nell'immaturità dell'italiano dugentesco. È da credere invece che quelle repliche non siano né involontarie né eccepibili, perché attestano un impiego ben calcolato della figura retorica della repetitio; e che per di più tale impiego sia fondativo d'un canone di poetica "segnalatrice", destinato a porsi come centrale per la strutturazione stessa della Commedia. Chiarisco. Nell'Inf.III, 106 il "si raccolser tutte quante insieme" (del Laurenziano 4016, ma anche del Lolliniano 35 di Belluno, del Trivulziano 1080 ecc.) - riferito alle anime che si affollano alla barca di Caronte - non sarà da correggere con Petrocchi in "si ritrasser tutte quante insieme" solo perché il "raccogliere" torna appena quattro versi dopo: "loro accennando tutte le raccoglie" (Inf. III, 110). Il raccolser, invece, deve prevalere sul ritrasser, perché l'immediatezza della ripetizione è secondo programma, e aggancia le "raccolte" d'anime del nocchiero purgatoriale (due anch'esse, e simmetriche a quelle infernali), ugualmente ravvicinate: al "fui da lui ricolto" di Purg. II, 102 fa pronto seguito lo "ivi si ricoglie" di Purg. II, 104. È che Dante vuole riproporre la "collezione" escatologica delle anime qual è reperibile nell"auctoritas biblica: siamo inviati al colligere - obbligante, dalla sua visuale cristiana - dei Vangeli e specie del XIII capitolo di Matteo.
Perciò conviene credere che il poeta di Beatrice, con quell'ostinazione sugli Appresso-Poi-Dopo-Poscia, cerchi il dialogo con un modello autorevole, che per essere tale non può non appartenere al Libro dei libri: per noi il Giovanni dei novissimi, dei Post haec e degli Et postquam che inducono le "visioni" dell'Apocalisse. Questa tesi è avvalorata dal fatto che l'uguale gioco dello stilema giovanneo ricompare nella Commedia. Le "visioni" schizzate nei versi 109-160 del canto XXXII del Purgatorio e nei primi del XXXIII - che insieme contengono le vicissitudini della Chiesa dalle origini al Trecento - si possono numerare con esattezza, e decifrare nelle allusioni storiche, solo quando si individui ciascun capoverso divisorio come il corrispettivo di quelli dell'Apocalisse: Ma poi-Poi-Poscia-Poscia-Poi-Poi-Ma poi-Poi. Così la sequenza di Purg. XXXII, 130-156, nella quale in genere i commentatori additano più trasgressori e più trasgressioni, in realtà ne raffigura una sola, continuata: quella di Bonifacio VIII. Allora fa capolino un sospetto: che, una volta adombrato il carattere apocalittico-visionario della Vita nova (quanto meno nello schema), la quaterna degli indicatori temporali di provenienza giovannea debba anche essere presa a guida da chi voglia determinare l'effettiva scansione interna del libello; una crux che - come è noto - leva la pace ai suoi più freschi editori. Più d'un terzo dei quarantadue capitoli barbiani scomparirebbe, e l'incolumità verrebbe assicurata unicamente a quelli che recano nell'inizio almeno una traccia riportabile all'Apocalisse, qual è, ad esempio, nel canto V, 1 : "Un giorno avvenne [...]".
Ma infine, a procedere con impietosa consequenzialità, la reductio potrebbe essere anche più drastica. E ciò proprio per istigazione di quel codice, il Martelliamo (M), che da qualche anno Guglielmo Gorni esibisce volentieri, indicandolo come il più autorevole - insieme al Toletano (To) e al Chigiano (Ch) di Boccaccio - nonché discendente diretto dell'archetipo e "verosimilmente" anche dell'autografo dantesco. A interrogare quel manoscritto con il criterio della "semiosi obbligata", il numero dei capitoli scenderebbe anche al di sotto dei trentuno in cui, per Gorni, la Vita nova andrebbe ripartita. Non pochi di quelli che il docente ginevrino registra, ad esempio il 17 (il XXVI dell'edizione barbiana), il 23 (XXXIV) e il 25 (XXXVI), nella realtà - come d'altronde egli stesso annota - mancano del segno paragrafale, anche se recano l'a capo e lo spazio bianco. Per noi tale mancanza va censita e rispettata nell'operazione partitiva, perché può spiegarsi con la considerazione che il testo dantesco in quei punti non presenta nessuno dei marcatori "giovannei" di cui s'è detto. Nel Martelliano, poi, non figurano neppure i paragrafi IV-V-VI-VII. Anche qui, e per noi non a caso, nessuno dei quattro reca il marchio giovanneo. Stessa cosa si riscontra per la coppia XI e XII: non attestati nel Martelliano, e anch'essi privi di quella convalida. Il trascrittore passa difilato da Apresso la mia ritornata (X, 1) ad Apresso di questa soprascritta visione (XIII, 1). Qualche conto che non torna - ad esempio la presenza, in quel manoscritto, dei XXXVII-XXXVIII-XXXIX, quantunque non comincino
con il solito clic temporale giovanneo - nulla toglie a quanto abbiamo rubricato. Oltretutto - possibili errori del copista a parte - la ragione di quelPacefalia potrebbe anche trovarsi, e con ipotesi allettante. Siamo ai capitoli che narrano l'infedeltà al ricordo dell'amata, la "storia" del malvagio desiderio rivolto alla donna gentile: a buon diritto si può ritenere che quei tre capitoli, riservati come sono all'Anti-Beatrice, perciò stesso non tollerino lo stigma verbale dell'apostolo che, nella Commedia {Par. XXV-XXVI), sarà maestro e teologo dell'amore-carità. Quanto al 16 martelliano, (il XXV del Barbi), anch'esso "scoperto", la sua sopravvivenza non solo non costituisce deroga, ma rafforza la proposta in atto: esso doveva esser privato del lasciapassare giovanneo, perché non riguarda Dante personaggio e non fa parte del racconto, ma è solo una lunga didascalia parentetica di Dante autore.
E qui è bene fermarsi, altri essendo i luoghi deputati alla questione. Che ho riacceso, a ogni modo, non con obiettivi di pura filologia, ma perché n'escono lumi per l'interpretazione del libello e - si constaterà - per le immagini che Sughi ne ha evinto. Non è condivisibile la tendenza generalizzata a sminuire l'intertesto del Giovanni apocalittico, e a ritenere se mai preferenziale nella Vita nova l'adesione al linguaggio dell'altro Giovanni, il linguaggio della charitas - vedi la "fiamma di caritade" accesa da Beatrice (XI, 1), donde poi la identificazione di lei con Amore - fino all'avvertimento d'un contrasto tra lo stile doloroso e quello "dolce" della lo da: quasi che la dolcezza inserita ai versi 10-11 di Tanto gentile - "che da per li occhi una dolcezza al core / che 'ntender non la può chi no la prova" - non facesse capo (come il suo addietro interdiscorsivo, segnatamente vittorino) ad Apoc. II, 17: "nemo scit nisi qui accipit (probat)"; e come se r"umiltà" di cui Beatrice è vestita non coincidesse con l'umilitade onirica apparsa nella faccia di lei morta {Vita nova XXIII, 8), che sembra dire "Io sono a vedere lo principio de la pace". Un principio, peraltro, non meno giovanneo: "Gratia vobis et pax ab eo" {Apoc. I, 4).
Non che sul registro apocalittico del componimento in causa, Donna pietosa, non ci sia concordia: ma essa è guadagnata grazie a una fruizione aspecifica del termine, e al sottinteso che con tale canzone sopravvenga un'anomalia rispetto al generale del libello; e c'è perfino chi la ventila come un'annessione seriore. Quanto all'intertesto, predominante è agli occhi di tutti quello evangelico della morte di Cristo, che reca l'oscurarsi del sole e il cadere delle stellae (al plurale). Solo per diligenza d'informazione si aggiunge il precedente di Apoc. VI, 12-14, e (ma meno) quello di Apoc. IX, 1-2, sebbene quest'ultimo abbia sugli altri il vantaggio di stella al singolare ("vidi stellam de coelo cecidisse in terram [...] et obscuratus est sol") com'è in Dante: "turbar lo sole e apparir la stella' (v. 25).
Né s'è fatto caso che al Giovanni profetico è riconducibile la stessa classificazione "necessaria" degli eventi, come rivelazione-manifestazione, quale è nella parte che
introduce Donna pietosa: "Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: 'Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia'" ( Vita nova XXIII, 3). La "necessità"-"propinquità" è il distintivo dell'Apocalisse fin dalle prime parole: "Apocalypsis Iesu Christi, quam dedit illi Deus palam facere servis suis quae oportet fieri cito"(Apoc. 1,1). Ma soprattutto manca ogni cenno, ch'io ricordi, individuante la radice apocalittico-giovannea di un monito in latino che Amore fa al poeta, e ch'è d'incidenza primaria in quanto rivela il carattere più rimarchevole del libello: di confessione d'una conversione, sia o no anche di poetica (E. Sanguineti). Alludo a Vita nova XII, 4: "Fili mi, tempus est ut praetermictantur simulacra nostra" Qui, nell'invito a pentirsi, convengono Apoc. I, 3 (uTempus est prope") e Apoc. IX, 20 ("neque poenitentiam egerunt [...] ut non adorarent daemonia, et simulacra aurea"), insieme con 1 Ioan. V, 21 : "Filiali, custodite vos a simulacris"), e con Tob. IV, 6: "Fili mi [...] cave ne aliquando peccato consentias, et praetermittas praecepta Domini Dei nostri".
Ciò, inutile dirlo, consiglia di ritornare con altro animo su Purg. XXX, 115, dov'è l'occorrenza di vita nova, nel significato di vita giovanile, pura e virtualmente fertile, perché trascorsa in "fedeltà" a Beatrice. L'accusa, infatti, ch'ella muove al poeta - di abbandono (non però divorzio) per darsi altrui - e il "puntargli" contro la parola perché ammetta le sue colpe, giungono in colleganza inedita ancora con apocalisse: "Ed habeo adversum te, quod caritatem tuam primieram reliquisti" (II, 4). Ilprimieram giovanneo viene così a prospettarsi come l'ascendente più accreditabile della novità della vita dantesca, non senza riverbero sull'opzione titolatoria: "Vita nova" sarà più conveniente che "Vita nuova". Queste agnizioni potrebbero comportare una conseguenza straordinaria: che il feminino dello "schermo" precipiti dagli eleganti veroni cortesi alle ambage della profezia biblica. E in proposito, anticipiamolo, la decodifica di Sughi è veramente centrata. D'altra parte, a scoraggiare ogni tentativo di scissione dello stile della loda da quello profetico varrebbe anche solo l'osservazione che Donne che avete intelletto d'amore nasce per lingua che parla "quasi come per se stessa mossa": tale è per antonomasia la lingua dei profeti; e che la "volontade di dire" le nove rime sopraggiunge "per uno cammino lungo lo quale sen già uno rivo chiaro molto" (XIX, 1): l'acqua, e del fiume in ispecie, è più volte il catalizzante dell'investitura profetica (Ezechiele, Daniele ecc). Il catalogo dell'intratesto e dell'intertesto che costituiscono la Vita nova è dunque da rivedere, e arricchire d'altri lembi rivelativi del suo profilo genetico: con non pochi riflessi nel quadro delle valutazioni anche particolari. Ad esempio, l'impiego assiduo del verbo "parere" (mi parea... pareami... a me parea ecc.) non andrà più ascritto - come opinò il Marti - a gusto compiaciuto di "goticheggianti calligrafie": esso riconferma, svelandola ancor meglio, l'intenzione visionario-apocalittica dell'autore. Si ricordi il "signum magnum apparuit" di Apoc. XII, 1. Ricondotta la configurazione del libello a questa matrice, che garantisce l'unità quanto meno dello schema, insorgono forti dubbi sulla congruenza delle definizioni "agiografiche" che ancora se ne danno, rea in primo luogo la Legenda sanctae Beatricis dello Schiaffìni (1931). Esse sottovalutano o trascurano il segnale contenuto nel titolo Vita novaì che lega la materia in versi e in prosa all'esistenza dell'autore (e non di Beatrice): a formare una sorta di prologo magno alla Commedia, in quel ch'è una "Danteide" profetica. D'altro lato, chi ardirebbe affermare che la Commedia sia il poema di Beatrice, solo perché il poeta la accoglie in tutto il Paradiso e già dai quattro canti finali del Purgatorio7. Per questo non ho difficoltà a sintonizzarmi con l'operar* di Alberto Sughi in quel che ha di più patente: l'accanirsi nel tratteggiare - e stavo per dire "corteggiare" -la sembianza del poeta ben oltre le postille (e si guardi anche alle molte prove di "ritratti"), in modo che prenda campo su ogni altra. A buon diritto è sostenibile che un tal favore - per quanto è emerso dall'indagine -risolve il colloquio dell'artista col poeta in un fine equilibrio di spinte estetiche e critiche, se non in un atto di vera e propria ermeneusi.
Non con pari convinzione mi esprimerei davanti a un altro nodo: se Sughi abbia intuito il fondo apocalittico-visionario della Vita nova. Lo lascerebbe credere quel suo ininterrotto abbronzare, illividire e agitare il vicino come il lontano iconografico nelle tele richiestegli, per tipologica o costituzionale che sia in lui l'inclinazione alla gamma dei grigi e dei viola (è noto che egli li adopera da sempre), e la costanza nel "solennizzare": che è riportabile anche alla sua formazione classica, e perciò all'incontro intertestuale coi maggiori (Raffaello, Michelangelo, per fare dei nomi). Tuttavia, a pensarci: dopo quanto s'è appurato circa l'eminenza del tema della conversione (per il quale, annunziamolo, bisognerà recuperare anche l'influsso di Sordello da Goito, che non è limitabile alla concordanza della cardiofagia)
- giunge interamente in chiave la scheda "antigraziosa" ch'egli realizza della donna dello schermo, con quella frontalità ch'è tanto più veridica come più urta nell'i dea corrente che l'avviso antico e moderno ne conserva. Il pittore coglie qui perfettamente, come non fanno i critici, la rigenerazione "etica" di quel topos, e rimarca l'acutezza del dramma coscienziale che in genere la tradizione riscontra per altri "smarrimenti", e massimeper la donna gentile. La quale, per Sughi, non è la Filosofìa, dacché egli riserva quest'allegoria (una novità da verificare) a Beatrice.
Così non unicamente per il suo doppio profilo ammiriamo la Gentilissima che cammina, com'egli l'ha vista, "altera e leggera", e non sorride né guarda i viventi. Poco ha potuto in lui - come invece in altri "illustratori"
- certa lingua della Vita nova che sembra indirizzi nel senso più pacifico della dolcezza, complice l'autografìa della dizione stessa di "dolce stil novo"(Purg. XXIV, 57): neanche quando il suo "notare" va per la china emoti vopsicologica e cattura e sottolinea un tema, la "pensosità", al quale non è arrisa la fortuna che meritava. Le tre icone che fanno visibile la varietate di Tutti li miei penser indulgono, è vero, ai levia, ma poi suggeriscono,
anche per la peculiarità contestuale, una leggerezza sui generis, sparsa di rughe e pieghe ambigue. I gravia riemergono incontrovertibili subito dopo, nella tela di Piangete, amanti, un sonetto dedicato alla morte d'una giovane amica di Beatrice. Colpisce in primo luogo la scelta dell'episodio, preferito ai molti altri rinvenibili nella Vita nova, a onta ch'esso non abbia una palese tangenza con il suo racconto maestro. Navigando nel proprio, egli tocca le corde del tema funebre con una mano che ancora una volta diventa espressiva in forza dell'esegesi che attua: qui più che di illustrazione sarebbe giusto parlare di commento. Se un'eco del catulliano Lugete, Veneres Cupidinesque propendevamo a sentirci (mediatore, fra gli altri, De Robertis), ora le pennellate monocrome di Sughi inducono a differenti stime, e a riflettere su quello che è uno dei fili più robusti dell'ordito vitanoviano: il tema, non convenzionale ma vivo, del dolore, delle lacrime e della morte, col connesso memento religioso. Quel riquadro è d'una essenzialità-intensità drammatica tale che allegare i toni cupi della profezia diviene naturale, se non doveroso.
Aveva dunque ben previsto Floriano De Santi: l'illustrazione della Vita nova è risultata ad Alberto Sughi più "congeniale" di quanto egli medesimo potesse credere. A quella scommessa dobbiamo il concretizzarsi di un'alta ispirazione d'arte e di cultura dantesca, così significativa da farci rimpiangere che non abbia eluso la tirannia dei tempi legati alla committenza. Ma chi impedisce di far voti che Sughi... "ci ritorni"?

Mario Aversano,

Roma, 2003

 

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