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Alberto Sughi: La conversazione che mi ha cambiato la vita.

di LUIGI VACCARI

Roberto Longhi,

 

Alberto Sughi nella piazza del mercato di Cesena, anni 60, foto Ugo Mulas

Una lettera. Altre lettere. Un incontro. Altri incontri. Ma una premessa gli sembra doverosa, avverte Alberto Sughi, romagnolo di Cesena, 73 anni, pittore del realismo esistenziale: <Penso che la conversazione che cambia la vita sia poco più di una metafora per dire qualcosa di più complesso. Se è vero che si percepisce soltanto quello che si sa, dagli altri ci aspettiamo delle conferme piuttosto che dei ribaltamenti. Raramente ci sono delle conversioni e, quando accadono, attengono preferibilmente alla fede. E' vero, invece, che conoscere alcune persone può aiutarci a capire la vita in maniera più articolata e produrre dei cambiamenti >.
Sughi cita una missiva, a cui ne sono seguite altre, che ha preceduto l'incontro: è del 4 luglio 1957. Racconta: <Avevo tenuto la mia prima personale a Roma, la maggior parte dei quadri era stata venduta, ricominciavo a lavorare nel mio studio di Cesena dentro il torrione quattrocentesco della Rocca malatestiana. Il consenso che avevo incontrato mi aveva lasciato un misto di compiacimento e di inquietudine>. Dopo qualche mese gli arriva da Firenze una lettera: sul retro della busta l'indirizzo del mittente, ma non il nominativo. <La apro, vado al fondo della pagina, leggo la firma: Roberto Longhi, il celebre e prestigioso storico dell'arte . Il mio cuore ha accelerato il suo battito>, confessa. Legge al cronista, rendendola pubblica: "Caro Sughi, avevo visto con grande interesse il suo dipinto presso l'amica Annarella Salvatore ed ora sono veramente lieto di avere con me le fotografie di altri suoi dipinti quasi tutti sorprendenti (…) anche solo il fatto di sapere che nel concerto "realistico" italiano esiste la pittura di Sughi, mi rallegra e mi conforta molto (…). Suo aff. Roberto Longhi". <Sembrava>, commenta adesso, <che volesse assegnare a me un ruolo gravato dal peso di una responsabilità esaltante: non verso gli altri, ma nei confronti di me stesso e della mia pittura>.
Il 3 ottobre, dopo scambi epistolari, l'incontro fiorentino alla villa Il Tasso, nell'ampio studio dell'autorevole storico: <Longhi era seduto a una grande scrivania dove, fra pile di carte e libri, stava dormendo un enorme gatto persiano di colore grigio. Ricordo dipinti antichi alle pareti, ma anche un bellissimo Giorgio Morandi e una splendida marina di Carlo Carrà. All'ingresso avevo gettato l'occhio sul Bacchino col ramarro di Caravaggio>. Il colloquio amplia i brevi ma densi concetti epistolari. Sottolinea Sughi: <Quando si è giovani e si cresce non si ha la percezione netta della strada che stiamo percorrendo, ma si coglie, istintivamente, il sentimento del pericolo. Sono cresciuto in un tempo di forti contrapposizioni: da una parte la sirena del modernismo, delle esperienze dell'avanguardia; dall'altra, la cultura di sinistra, il neo-realismo, la pittura ideologica. Io stavo in mezzo con un senso di disagio. Lo sguardo di Longhi a un pittore appena apparso sulla scena, la generosità del suo apprezzamento e del sostegno intellettuale a una posizione che dava conto di questo disagio, il suggerimento che la mia scelta non si perdesse fra equivoci e falsi traguardi, sotto la suggestione delle sirene ideologiche e di mercato, mi ha esortato a tenere ferma la barra di orientamento, a crescere su di me, intorno a me, e a non diventare un altro. Volevo rifare una pittura che desse conto di come si è, come si guarda, come si vive. E di come ragioniamo. Non volevo diventare un adepto né dell'una né dell'altra parte. Longhi mi ha irrobustito nell'idea che l'artista deve essere anzitutto indipendente. E mi ha aiutato molto a non correre delle avventure, mascherandomi; a raccordare il mio lavoro alla storia della pittura; a fare un esame critico-riflessivo sul suo significato profondo, e non a che cosa serva in un certo tempo>.
In quegli anni non ha avuto la sensazione di cambiare, aggiunge il pittore romagnolo: gli sembrava naturale e anche molto bello incontrare e parlare con una persona come il grande storico dell'arte, di cui condivideva tutto. <Mi sono reso conto che senza il suo sostegno sarei stato, non dico diverso, certamente più debole e avrei fatto più fatica a percorrere la strada che ho percorso>. L'idea del fallimento della propria scelta, spiega, ce l'abbiamo tutti, ce la portiamo appresso: <Me la porto ancora, nonostante tutto. E allora quando trovi delle ragioni per rafforzare qualche cosa che ti preserva da questa paura che abbiamo tutti i giorni, eh…>.
La prima volta che si sono visti, quel 3 ottobre, a Il Tasso, non hanno affrontato, all'inizio, temi importanti. <La grazia di Longhi era di parlare di cose che sembrava non attenessero all'argomento per cui ci eravamo visti. Ma si esprimeva alla maniera dei maestri: manifestava il suo pensiero, il suo gusto e ti avvicinava in modo molto semplice e umano alle scelte di fondo. Discettava di ciò che gli piaceva nella vita quotidiana, di gioco delle carte… e tutto si collegava straordinariamente con quello che conoscevo di lui dalla lettura dei suoi scritti>. Aveva immaginato, Sughi, che si sarebbe trovato davanti una persona speciale: <Mi ha sorpreso il suo eloquio, così affascinante e suadente>. Ha cominciato a raccontargli che, da ragazzo, girava i musei d'Italia e di come non si dovesse usare la macchina fotografica: <Mi ha detto: "Un quadro si conosce meglio dopo averlo ricopiato. Se uno lo ricopia, ne tiene a mente le forme e le strutture; se ne fa una fotografia, non arriva a percepirlo. Disegnare è anche un metodo per conoscere una forma". Parlava con semplicità, sommessamente>. E' stato un grosso insegnamento: <Longhi aveva afferrato una verità molto profonda: la conoscenza attraverso il disegno, e che cosa il disegno lascia dentro di noi. I critici, in genere, non ne parlano>.
Gli incontri si sono fatti frequenti. <Andavo a trovarlo, da Ferrara veniva Giorgio Bassani: giocavamo a carte, discutevamo di tennis... Forse alla terza conversazione la pittura moderna è diventata l'argomento centrale. Sono cresciuto in un clima culturale e ho fatto scelte che lasciano tuttora segni profondi nella mia pittura>. Si fronteggiavano, all'epoca, la scuola longhiana e la scuola venturiana. Lionello Venturi, che era stato in America, sosteneva la corrente astratta, Longhi la figurazione .......<Si poteva passare da una parte o dall'altra. Non conoscevo Longhi, conoscevo i suoi scritti, soprattutto la rivisitazione della pittura antica, da Masaccio fino a Caravaggio, ma sentivo di appartenere alla sua scuola. Quando l'ho incontrato ho anche capito meglio le motivazioni per cui mi dovevo tenere stretto alla parte che avevo scelto: la figurativa>.


Sughi non ricorda un alterco. <. Longhi era un signore come ormai non ce ne sono più>, sorride: <di una gentilezza estrema e, soprattutto, di un'autorevolezza così incontestata… Mi suggeriva, con delicatezza. E mi induceva a riflettere>. Per esempio quando ha cercato di disincagliarlo dalla forte passione per l'espressionismo tedesco: <Non amava la forzatura dell'immagine, e, avendo una cultura più classica, mi ha esortato a non crederci troppo: "Questo neo espressionismo non sarà un neo nella sua crescita? Ci pensi". Un giovane cerca di affermare le sue idee. Ma in poco tempo ho dato ragione a lui, perché sono uscito da quell'infautazione>.
I rapporti a un certo punto si sono allentati, fino a sfumare: <Non ci sono state delle ragioni particolari. Ci si vede un po' di meno, di meno ancora, lentamente vai da un'altra parte>. Ma il pittore non ha mai abbandonato o negato i significati di quei colloqui: <Non ho mai pensato di aver superato le sue parole. Devo dire, nello stesso tempo, che non ho mai pensato di restarci troppo attaccato. M'aveva insegnato che anche con le cose che ami devi avere un rapporto dialettico: devi crescerci sopra, non rimanerci sotto o avvinghiato, perché anch'esse sono cresciute alla stessa maniera. La storia ha sempre contribuito in modo nuovo alla conoscenza e al sapere: è vietato credere che si arrivi a un punto da cui non si può procedere>.
Alberto Sughi conclude e riassume così il suo "debito" con Roberto Longhi: <Gli debbo la mia formazione intellettuale. Senza quegli incontri la mia strada sarebbe stata forse un'altra. Non posso dire quale, non avendola percorsa. Lui non era un pittore. Ma la sua conoscenza, non solo dell'arte, la sua grande lucidità, la sua prontezza, mi hanno così affascinato che, pur facendo un mestiere diverso, non sono stato più in grado di sottrarre all'analisi critica, la più severa possibile, il mio stesso lavoro>.


Roma, 2003


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