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Giorgio Amendola

La Cena, Giorgio Amendola, Editori Riuniti, 1976.


Ho accolto l'invito dell'amico Sughi non per cogliere una simpatica occasione di evadere dalle mie abituali attivita' ed arrischiare una fuoruscita su un terreno sconosciuto. Vi sono momenti di crisi grave, sociale e morale, in cui non si sopporta di restare rinchiusi nei soliti steccati, ma si sente il bisogno di saltarli e di stabilire umani contatti con coloro che vivono e lavorano in altri campi. Vi sono momenti nei quali le norme che regolano la ordinaria operosita' degli uomini cedono sotto il peso delle pressioni e l'urto degli interrogativi.
Gia' negli anni tormentati e gloriosi della Resistenza e delle prime civili battaglie repubblicane, gli uomini migliori sentirono il bisogno di ritrovarsi vicini, di combattere assieme, quali fossero state le precedenti occupazioni. Si strinsero allora, fulminee, amicizie tra uomini e donne diversi, alcuni usciti allora dall'anonimato di una grigia esistenza a dare prova di insospettate facolta'. Cosi negli interminabili coprifuochi delle tragiche notti dell'occupazione tedesca, e poi nelle festose conviviali serate delle piazze romane, si ritrovarono assieme pittori e scrittori, ex carcerati politici ed organizzatori clandestini antifascisti, a fare il punto quotidiano delle battaglie combattute, e ad intrecciare i disegni di un rinnovamento nazionale.
Ricordo gli assenti, Carlo Levi, Mario Mafai, Marino Mazzacurati, Salvatore Quasimodo, Mario Alicata, Celeste Negarville, Gianni Puccini, Elio Vittorini, Cesare Pavese, Velso Mucci, Giacomo Noventa, perche' i sopravvissuti diano, quando possono, testimonianza di quei tempi straordinari e di una fraternita' non rotta dalle rumorose discussioni. Duro' a lungo questo animato e vario sodalizio di persone diverse, per opinioni politiche e gusti di vita, ma aperte tutte ad un permanente confronto. Duro' a lungo, pur tra vivaci ed appassionati contrasti, almeno fino all'esplosione delle grandi lotte meridionali per La terra e per La liberta' quando, dopo Melissa, a Salerno Luchino Visconti proiettava nella versione originale La terra trema per i lavoratori convenuti alle Assise del Mezzogiorno, e nelle strade della vecchia citta' i poeti continuarono fino all'alba una discussione sul rapporto tra civilta' meridionale e poesia. (www.albertosughi.com).
Si era nel dicembre 1949. Poi la vita italiana prese un altro corso. Tacitata con uno stralcio di riforma agraria la sete di terra dei contadini piu' combattivi montati all'assalto dei vecchi latifondi baronali, ingannate le piu' vivaci richieste di mutamenti con una manciata di miliardi elargita con abilita' discriminatoria dalla Cassa del Mezzogiorno, nucleo centrale di piu' vaste e rapaci clientele, s'inizio' la rapida e tumultuosa espansione economica degli anni '50. Questa fu alimentata dalle inesauribile capacita' di lavoro offerta dai milioni di braccianti e contadini poveri cacciati dal sud ed attratti dal grande miraggio delle citta' industriali del nord e dal posto sicuro della burocrazia romana. Ma venne diretta e controllata nel nord, non solo dai grandi gruppi industriali pubblici e privati, ma anche da una piu' vasta capacita' d'iniziativa di ceti di media e piccola borghesia, ed anche di nuclei consistenti di artigiani e commercianti, spinti da robuste volonta' di lavoro e di individuale
affermazione.
Furono gli anni del "miracolo", della grande arrampicata. Tutti gli indici statistici puntarono in alto, con balzi vertiginosi: gli indici della produzione, dei redditi, dei consumi, dell'istruzione, dei libri venduti, dei prezzi dei quadri. Con la migliore alimentazione stava crescendo, persino, l'altezza media dei giovani di leva. Gli uomini furono risucchiati dalle loro attivita' ritrovarono o costituirono i corpi separati dei vari settori. Colsero anche soddisfazioni e riconoscimenti materiali e morali. Si riformarono le categorie, con i loro egoismi e regolamenti, le loro mode e le loro mafie. Le avanguardie incalzanti furono presto superate e ricacciate alla retroguardia da nuove leve impazienti di occupare il loro posto e partecipare in tempo alla festa.
Poiche' c'era un elemento di insicurezza in questa galoppata, e il termine "miracolo" esprimeva, appunto, una collettiva coscienza di un fenomeno effimero destinato a passare. Bisognava, dunque, approfittarne in tempo utile. Fu una spinta inesorabile e sostanzialmente positiva, che nessuna forza politica potra' contrastare, ma soltanto cercare d'incanalare per raggiungere altri e non provvisori obiettivi. E, del resto, come si poteva contrastare la forza dei bisogni piu' elementari da sempre insoddisfatti, la vecchia fame ancestrale, e lo stato di disoccupazione permanente, ed anche le legittime ambizioni di fare valere, nella nuova societa' liberata dalle vecchie bardature autarchiche e fasciste, le proprie personali capacita'. Erano sacrosanti bisogni che cominciavano appena a conoscere parziale soddisfazione. Non bisognava criticare queste spinte, ma cercare di indirizzarle, con modi e tempi controllati, verso traguardi sicuri, in un generale rinnovamento della societa nazionale. In mancanza di positivi indirizzi politici e culturali, finirono invece col prevalere le forze che fondarono la espansione sullo sfruttamento e sull'aggravamento delle vecchie contraddizioni: spopolamento delle campagne, bassi salari, periferie congestionate, la rottura di vecchi secolari equilibri, senza la creazione di nuove civili strutture. Di fronte alle nuove possibilita dispiegate ed al timore di non cogliere prontamente occasioni ieri mai sperate, nessun appello alla ragione ed alla convenienza di uno sviluppo piu' armonioso, e non misurabile soltanto in termini di quantita' poteva essere raccolto. Fu aperto il varco al prepotente affermarsi delle cupidigie e delle vanita' nell'ignoranza calcolata di ogni giudizio di merito. Dal fondo delle province piu' arretrate si facevano avanti per conquistare la loro posizione di spazio nuove ondate di "ceti emergenti", come venivano chiamate, con precisione volutamente sociologica, le masse piccolo-borghesi montanti all'assalto di nuove posizioni di prestigio, potere, denaro. All'ombra della grande piovra corruttrice, nei rapporti sempre piu' stretti tra politica e affari, le nuove clientele si allargavano avide. le parole d'ordine lanciate dai governanti - si arricchisca chi puo' - veniva raccolta prontamente e stimolava la corsa sfrenata degli egoismi e dei particolarismi per la caccia alle raccomandazioni, alle "spintarelle", ai nuovi patti feudali di mutuo interesse.
Il vecchio particolarismo italiano si era risvegliato. Nessuno voleva dimostrare di essere piu' fesso del vicino, tanto fesso da tenere ancora al lavoro ben fatto, all'onesta individuale, al compimento del proprio dovere. Con la critica estremistica alla selezione di classe, si nego' ogni significato reale alla selezione dei valori, al riconoscimento dei piu' capaci. Con battute di arresto, crisi passeggere, aggiustamenti politici, ripetuti allarmi, la corsa e' durata fino al 1969-70. Il prezzo piu' alto pagato dagli italiani e' stato un torbido e generale avvelenamento della coscienza nazionale, la capitolazione morale davanti alle furberie tattiche degli arrampicatori sociali e politici.
Vi e' stato chi ha saputo indicare, in tempo utile, i limiti e le contraddizioni di questa folle galoppata, ed i guasti profondi di ordine anche morale. Ma le prediche a poco potevano servire. L'unico modo per dominare i cavalli infuriati era quello di tenere le briglie per guidarli a saltare gli ostacoli sempre piu' alti, creati dalle nuove contraddizioni poste da una espansione che aveva finito col mutare in venti anni anche il volto fisico del paese, e distrutto patrimoni di bellezza creati nei secoli. L'importante e' che, di fronte all'esplosione degli egoismi individuali e collettivi, resistesse e si accrescesse una vasta zona di coscienze solidali, di tessuti unitari, di volonta' collettive. In alcune regioni, come l'Emilia, il tessuto democratico si era fatto piu' robusto, e questo fatto aveva reso meno squilibrata l'espansione in corso. Le forze antagonistiche che non si erano fatte assorbire, ma anzi erano state risvegliate da sonni secolari e stimolate a compiere profonde rotture, irruppero con forza negli anni 1968-69, quando nel corso di acute tensioni si opero', non senza difficolta' la saldatura tra il vecchio movimento operaio e le energie nuove, operaie, studentesche, giovanili, femminili, energie impazienti e fiduciose, nella loro ingenuita' di liberarsi di un colpo dal peso di servitu' secolari.
Sughi aveva seguito con dolorosa partecipazione le trasformazioni avvenute dopo la conclusione delle grandi, eroiche battaglie della guerra e del dopoguerra. le sue prime mostre risalgono all'inizio del decennio 1950-60. Al principio e' ancora la poverta' padana, dove alla miseria si accompagnano il freddo e l'umidita'. Le grandi alluvioni avevano lasciato molto fango ancora da asciugare. Ecco il significato delle mantelle nere dei braccianti. E ancora la poverta', la fatica, la lunga attesa di una umanita' sofferente, che aspetta il turno davanti agli sportelli. E la famiglia che viaggia - verso quale destino? - nello scompartimento di terza classe, nell'alba fredda, coi suoi grigi biancastri senza luce. Ma, dopo il 1956, Sughi gia segue il cammino in citta' della povera gente partita dalla provincia. In un cammino solitario, senza calore di fraterna solidarieta. Le squallide tavole calde, le sale di interminabili attese, i caffe' vuoti, i cinema freddi, i sottopassaggi lugubri vedono uomini e donne soli, goffi, impacciati, dannati nella loro scheletrica tristezza. I letti degli amanti sembrano tavole chirurgiche.
L'egoismo della corsa solitaria alla promozione economica e sociale porta con se' inevitabilmente, il freddo della solitudine, la noia della lunga attesa, l'incontro goffo e imbarazzante di amanti provvisori.
E' per queste tristi e solitarie strade che giungono al trionfo della "ora storica", i personaggi lividi e cianotici che si attardano ai brindisi nei bar dalle luci spente (sic). Sulla poltrona finalmente raggiunta resta il manichino senza testa dell'uomo che per conquistare quel posto, quella poltrona simbolo del successo, ha perduto per strada la sua umanita'. E persino i paesaggi sono contaminati, i cipressi abbattuti sulle spiagge deserte.
Il lucido il discorso di Sughi, ma non impietoso, ne' per le donne goffamente accosciate nelle poltrone come marionette disarticolate, ne' per i personaggi, "i politici", che assumono la posa dei vittoriosi. Perche' di tutti egli indica le pene e il vuoto infinito. Sono presenze solo apparentemente salde e certe come figure geometriche. Non si guardano, non si parlano, non stanno assieme, ma si trovano vicini e basta. La vita scorre lontano da questa scena di statue. E' la fine della solidarieta, la negazione degli affetti.
E adesso il ciclo e' concluso. La grande crisi ha rimesso in discussione tutto. Una grande paura sconvolge le menti. Allora il successo, le ricchezze, il lusso ostentato, l'alimentazione appena scoperta con le sue infinite raffinatezze, tutto questo puo' essere rimesso in discussione? Cinquant'anni fa, per difendere molto di meno, i piccoli borghesi, non ancora soddisfatti ma ansiosi di promozioni sociali ed economiche, si scagliarono con violenza bestiale contro i proletari, ed aprirono la strada al dominio dei grandi capitalisti dell'industria e della terra. Ma questa volta manca alla violenza l'impeto dell'odio, la certezza dell'avvenire. Manca la convinzione, che pure e' necessaria in tutte le umane imprese, anche in quelle distruttrici.
La ricchezza e' stata, in realta' conquistata calpestando amicizie, solidarieta', dignita' in una disperata negazione degli affetti. E la negazione offre un muro impenetrabile, un muro che soltanto apparentemente sembra non avere incrinature, che invano cerca di respingere con violenza ogni debolezza. Perche' anche la violenza richiede sentimenti, affetti ed odi, passioni. L'unico sentimento che ancora resiste e' quello della paura. Sui volti deformi si scorge una vita che sembra gia' spenta nella raggelata solitudine di questa galleria di statue. Oggi la paura e' la piu' forte. Le parole non bastano, ci vorrebbero i fatti. Ma dove ascoltare le parole di un uomo, di chi? Anzi dove imparare ad ascoltare, a comunicare? Come si fa? Sughi, nel grande quadro della cena in piedi coglie il momento della disperazione. Mangiare fu la prima soddisfazione di questa gente. Il gesto del mangiare e' diventato un modo di pensare. Le prime abbuffate. Le cene in piedi. I nuovi riti dell'opulenza. Lo sfoggio degli abiti eleganti ed i piatti freddi di salmone affumicato, lo champagne ed il whisky. Attenzione alle marche. La casa nuova, la seconda casa al mare, la terza casa in montagna, i viaggi all'estero, i capitali esportati, li stanno sicuri! Ma ora nulla e' piu' sicuro, neanche all'estero. Il prezzo dell'oro sale e scende.
Cosi' la cena in piedi diventa l'ultima cena. la scena si e' spopolata. Sughi ci descrive il modo e le ragioni del suo lavoro. Lo spazio si e' fatto immenso, le figure rimangono isolate. Non si parlano. Non si parlano ora che stanno uscendo di scena, come non si parlavano all'inizio del loro faticoso cammino, quando cercarono di entrare in scena. Non hanno saputo parlarsi nemmeno nell'ora storica del loro trionfo. Allora recitavano, pronunciavano monologhi, discorsi gonfi di gergo e privi di umano contenuto. Resta l'atto del mangiare, il boccone ultimo simbolo del possesso, il boccone che gonfia le gote, che deforma il viso, che non vuole scendere giu'. C'e' il pericolo che i superstiti muoiano per soffocamento.
Ci vuole chi metta fine al macabro rito, che apra le finestre, che faccia entrare la luce del sole. Anche per Sughi e' giunto il momento delle grandi e nuove speranze. Egli che entro' nella scena artistica dopo la fine di un periodo memorabile per capacita' creative generali, e che ha seguito con intelligente comprensione e acuta percezione, l'aridita' di una promozione economica che non e' diventata emancipazione umana per mancanza di contenuti ideali, puo' oggi portare, nella nuova crisi della societa' nazionale, il contributo di una intelligenza sensibile, resa amara ed esperta dalle vicende vissute, ma capace percio' di una speranza piu' razionale e laica, meno ingenua e piu' utilmente operante. La scena deve tornare a popolarsi di persone vive.

Giorgio Amendola

La Cena, Giorgio Amendola, Editori Riuniti, 1976.

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