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Alberto Sughi

La Cena, Editori Riuniti, 1976.


Voglio dipingere un uomo che parla. Che si vedano tutti i denti. Che sia il ritratto di chi e' soddisfatto di come sa usare le parole. Il rappresentante di una classe che non amo molto, parla di territorio, di comprensorio, di fruitori, di compartecipazione. Invece e' cinico; non crede.
Non mi piace come sta venendo fuori il quadro: questa bocca aperta che parla e' lontana da quello che voglio fare; e poi non si puo' ascoltare quello che dice. Ecco il punto: bisognerebbe che si sentisse quello che dice; ma poi magari a qualcuno piacerebbe. Invece non deve piacere.
E allora prendo tempo e dipingo il fondo: un po' di rosa, molto grigio.
Pero' gli occhi sono giusti; il naso, la bocca vanno bene. Cosa manca? Mi viene l'idea che quella bocca aperta possa, invece di parlare, inghiottire qualcosa e disegno la mano che porta alla bocca un pasticcino. Adesso l'idea del quadro mi piace. E' molto abbozzato. Il fare veloce raccoglie bene la vivacita' di una espressione, di un movimento. I segni non precisati lasciano intravvedere un ampio arco di possibili soluzioni. Sono indicazioni che non chiudono l'immagine.
Lascio il quadro a questo stadio, ci pensero' poi; per ora mi accontento di avere fatto una cosa che mi soddisfa.
Oggi prendo un'altra tavola e disegno una donna che mangia; con il boccone che le gonfia le gote. Penso di non dare troppa importanza al significato, al racconto. Voglio dipingere questo gesto del mangiare come se dipingessi una natura morta. Non voglio rappresentare un'azione finalizzata. Ma piuttosto un ritratto dove il gesto, tolto dal contesto per cui e' compiuto, dia una carica plastica alla figura che dipingo. Metto ravvicinati i due quadri e comincia a nascere l'idea di dipingere una cena in piedi.
Davanti alla grande dimensione ho sempre provato una eccitazione particolare; come se lo spazio ampio mi offra tutte quelle possibilita' di immaginazione che mi sono negate dal piccolo formato. Per questa ragione preparo una grande tela.
Potevo dipingere piu' figure: il tavolo imbandito con la gente in piedi che mangia; potevano succedere le cose phi impensate: entrare dei cani a spaventare i convitati; questi potevano bere fino ad ubriacarsi; una donna sola ed isterica avrebbe potuto togliersi gli abiti tra l'interesse o l'indifferenza degli altri; le persone potevano addossarsi le une alle altre strette dal godimento o dalla paura. Era tutto possibile. Quella grande tela bianca poteva essere la scena in cui io prendevo coscienza della mia vita, o meglio degli umori, delle curiosita' della vita che ho conosciuto e di quella fuori di me.
Ho cominciato col carbone ad abbozzare figure, movimenti e azioni: il gesto del mangiare, un uomo che toglieva la pelliccia ad una signora, un cane curioso in mezzo ai convitati, due persone vicine che si guardavano, una donna nuda di spalle, il primo piano di un signore indifferente.
Il disegno era suggestivo; pieno di provocazioni; di possibili soluzioni che andavano in direzioni contrarie.
Quando si disegna col carbone non ci sono problemi ne' di volumi, ne' di luce, ne' di spazio. Era come un inventario d'immagini su cui avrei dovuto meditare e capire e scegliere. Mi dicevo: <<chissa' cosa succedera' in questa cena; chissa' come finira' questo convivio pronto ad ogni evento. Puo accadere tutto o puo' non accadere niente. I personaggi possono agire o finire fermi, immobili, fissi >.
Ne parlai con G. Raimondi; parve sorpreso dell'impostazione che davo al mio ragionamento:
<<Alberto, - mi disse, - tu parli del tuo quadro come se tu non ne fossi l'autore, ma solo lo spettatore. Invece succedera' solo quello che tu vuoi che succeda; o quello che tu sai che nella vita puo' succedere >. Tentai di ribattere che no, che io ero pronto a seguire quei personaggi, che appena avessi definito in modo preciso una fisionomia, avessi capito bene di chi parlavo, avrei messo in moto un'azione che non era solo mia. Io volevo solo interpretare, guardare registrare. Ero pronto a spersonalizzarmi per dipingere il mio quadro.
Spersonalizzarsi significa per un pittore soprattutto decidere di fare volontariamente a meno di tutti quei segni, quei modi che sembrano nascergli dalle mani. Togliere, dal suo intervento sul quadro, tutti quegli automatismi di esecuzione che gli sono venuti dalla consuetudine col suo modo di dipingere; tutti quei "segni riconoscibili" che sembrano far parte integrante di quella che chiamiamo la " personalita' " di un artista e che, invece, altro non sono che un deposito, delle scorie di un lavoro che, per pigrizia, non si e' mai voluto decantare.(www.albertosughi.com)
In tutti gli studi che mi avevano portato alla risoluzione di dare inizio a questa tela piu' grande erano invece ancora tutti presenti i miei modi usuali di procedere nel lavoro: per rapidi accenni, con momenti di attenzione analitica, contrapposti ad altri piu' veloci e indeterminati. Rimanevano cioe' presenti quei caratteri che sono sempre stati la spia della mia educazione artistica: un connubio di post-impressionismo ed espressionismo che voleva tendere al realismo.
Questa volta dovevo scegliere in altro modo. Non volevo entrare nel mio quadro per usargli violenza con una cultura pittorica che non ritenevo in grado di cogliere il nuovo atteggiamento che avveniva nel mio animo e nella mia mente. Dovevo <<spersonalizzarmi>> e quindi decidere, per prima cosa, di cancellare i miei segni.
Nonostante la determinazione, non e' facile. E' come sentirsi d'improvviso stanchi della propria voce e del proprio lessico; o avvertire che la nostra voce e le nostre parole non danno piu' espressione ai nostri pensieri.
<<Spersonalizzarmi>> nell'accezione che intendevo, rispondendo a Raimondi, non poteva d'altra parte significare solo questo. Voleva dire qualcosa di piu' forse era un esame di coscienza che mi volevo fare; capire meglio chi ero e con chi ero; non rimanere chiuso dentro delle convenzioni per interpretare la mia vita e cercavo, in una operazione artistica, la porta di sicurezza per uscirne fuori. Altri pittori avranno inteso in questo senso la loro professione dell'arte.
Cominciai a togliere tutte le figure che avevano un rapporto con altre figure. Scomparve l'uomo che toglieva la pelliccia ad una signora; delle due figure che si guardavano ne rimase una sola e i suoi occhi fissavano ormai solo il vuoto. Scomparve il cane curioso assieme alla donna che si svestiva. Delle dodici figure che avevo disegnato ne restarono solo quattro.
I gesti rimasero gli stessi di quando erano insieme; ma siccome avevo tolto tutte le correlazioni tra una persona e l'altra, i gesti, che erano nati nel contesto di un'azione comune, diventarono insensati e rituali.
In quel momento ho anche cominciato a dipingere in maniera piu' determinata, piu' precisa, senza emozione.
Questi quadri, cosi come adesso li osservo, finiti, firmati, sono il risultato di un lavoro che e'S durato sette mesi e che e' cominciato quando pensai di dipingere un uomo che parla.


Alberto Sughi
(editori Riuniti, 1976)


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