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Alessandro Masi

ALBERTO SUGHI: una luce costante nella sofferenza.


Da sempre la voce armoniosa dell'arte penetra dolcemente nei fecondi deserti dell'anima carpendone le emozioni più vere, siano esse profumate di gioia, di amore, di poesia e di entusiasmo, oppure di dolore, di sofferenza, di malinconia, di tristezza e di sconforto. A volte è la spontaneità a caratterizzare i respiri di questo racconto, mentre a volte è l'irrefrenabile desiderio di rappresentare un sentimento, proprio degli artisti ma soprattutto di ogni più timido essere umano. Alberto Sughi, pittore romagnolo autodidatta, si imbatte nel racconto di cui sopra, mescolando la sincera ammirazione verso i modi artistici ottocenteschi, l'autentico interesse per gli aspetti e i costumi della vita moderna e la passione mai tradita per il Seicento e per la tecnica e lo stile del caravaggismo. La "storia" che Sughi tenta di raffigurare nelle straordinarie sale cinquecentesche di Palazzo Firenze a Roma, è nientemeno che la Vita nuova di Dante Alighieri. Il mae­stro, infatti, ha voluto dedicare alcune tavole a questo importante documento, nato dal genio del padre della lin­gua italiana e gelosamente custodito nel raffinato patrimonio culturale di sempre. A me, in quanto critico d'arte, sta il difficile quanto gratificante compito di cercare di comprendere e far comprendere l'arte di uno tra i più acclamati maestri della pittura italiana del dopoguerra. Leggere la bibliografia di Alberto Sughi, leggere i tanti critici che hanno scritto di lui dagli anni quaranta in poi, leggere i numerosi testi giornalistici e saggi di storia dell'arte in cui compare il suo nome, vuoi dire rintracciare una geografia complessa di un personaggio affascinante che sicuramente appartiene alla tradizione più vera dell'arte italiana. Una tradizione che non ha rinunciato a una propria identità e nello stesso tempo non ha rinunciato all'avvento della modernità. Ciò significa che, mentre nel dopoguerra molti dei nostri pittori, dopo una premessa figurativa, hanno dato anima e corpo a una esperienza astratta e astrattista - Capogrossi su tutti - Alberto Sughi è rimasto legato a una identità italiana definita "realismo essenziale".

In tanti hanno forse sbagliato a intravedere in Alberto Sughi l'esistenzialismo di Francis Bacon. Quello che facilmente si scorge nelle opere dell'artista, invece, è una sorta di raffigurazione dell'anima persa, dell'anima più nascosta, dello spirito più sofferto, più scavato, di ciò che la nostra pittura ha raffigurato dell'uomo italicus e dell'uomo occidentale, il tutto avvolto in un velo di forte senso cristiano. Nonostante tutto Alberto Sughi è davvero un interprete dell'antica sofferenza, così come è stata magistralmente narrata da Giotto, da Cimabue, da Masaccio, fino a Sironi, e non si è lasciato trascinare, ingannare o incantare dalle allettanti, quanto effìmere, sirene della facile contemporaneità, ma è rimasto coerente, dichiarandosi pittore sin dall'inizio e proseguendo poi nell'essere tale.

I rapporti evidenti con il cosiddetto "realismo esisten­ziale" non hanno nulla a che vedere con i rapporti che la pittura di Alberto Sughi ha avuto con il mondo anglosassone, e mi riferisco soprattutto a Francis Bacon, o con l'arte figurativa americana degli anni trenta, universi che hanno rappresentato, e che rappresentano tuttora, un vero e proprio disfacimento della personalità e annullamento totale dell'uomo e dell'individuo di fronte al tutto. L'uomo di Sughi non si annulla: resiste, soffre ma non cede. L'uomo di Francis Bacon si sfalda come si squaglia e si discioglie la plastilina al sole. L'uomo di Sughi soffre ed è cosciente di soffrire, rimanendo presente nella condizione della sofferenza, ma il suo dolore è un sentimento che in qualche modo lo rafforza e gli crea un motivo in più per resistere, perché quella di ogni uomo non è un'esistenza laica, ma profondamente e sotterraneamente spirituale. La forza dell'uomo di Alberto Sughi è la forza di chi crede, proprio perché lo stesso artista è un pittore che crede nella pittura.

Nell'attività creativa di Sughi, come in quella di ciascun artista, ci sono i cicli dei vari colori e i cicli dei vari temi, che hanno fatto sì che il maestro romagnolo si diversificasse in tanti e tanti tipi di espressività. A diffe renza, però, di altri, è rimasto sempre coerentemente legato all'idea fondamentale che la pittura fa bene all'uomo almeno quanto la letteratura. Filologicamente parlando questo concetto è determinante perché compri­me in maniera psicologica un dato la cui natura è sia spirituale che strettamente culturale II filosofo Piatone era convinto che la formazione del­l'uomo potesse avvenire attraverso l'immagine, sebbene condannasse l'arte nel famoso mito della caverna, dove nel mondo delle idee l'idea originaria di libro esiste solo nell'irraggiungibile Olimpo. Quella che noi vediamo è una copia dell'esistente. Dunque il pittore, in realtà, non fa altro che riprodurre una copia della copia. Il neoplatonismo fiorentino, però, riconosce nella pit­tura una forte componente pedagogica. Proviamo solo a pensare che quando i genitori di Alessandro de' Medici, appartenente alla parte ricca e potente della famiglia fiorentina, si posero il problema dell'educazione del figlio, si rivolsero proprio a un filosofo neoplatonico, Marsilio Ficino, il quale a sua volta chiamò Sandro Botticelli chiedendogli di dipingere la nascita di Venere, ossia della bellezza assoluta, perché quel bambino potesse convivere con un quadro che gli insegnasse fino in fondo i sentimenti dell'autentica bellezza, e gli fornisse al tempo stesso un'educazione visiva e morale. Che cosa ci insegna la pittura di Alberto Sughi? Ci insegna che, nel bene e nel male, il racconto letterario e quello iconografico imprimono nella nostra coscienza un aspetto dell'essere in nessun altro modo comprimibile. Forse un domani l'arte scoprirà nuove forme o nuovi metodi, ma oggi ragiona così e lo fa fin dai tempi dei graffiti nelle grotte di Altamira o dei Ciclopi nell'Isola di Pasqua.

Alberto Sughi, insomma, fa vedere ciò che vede l'uomo. Un uomo che rimane comunque sempre impressionato da ciò che vede. Grazie alla sua pittura è possibile riuscire a guardare il mondo attraverso gli occhi dell'uomo, che con estrema spontaneità guarda il mondo nel bene come nel male, nelle miserie come nelle grandezze, nella luce come nel buio, nello squallore come nell'armonia indescrivibile e pacifica del creato. Non è quindi assolutamente vero che la pittura di Sughi accarezza soltanto i profili negativi o, come spesso è stato messo in rilievo dalla critica, i profili pessimistici della realtà. "Rientro nei tuoi quadri - riflette Carlo Bernari - a breve distanza di anni e mi ci ritrovo come in una città nota: eppure non c'è uno spicchio di cielo che non sia nero, non una misericordia d'azzurro: le tue città sembrano scatole di ferro, chiuse da ogni lato. Nel volgersi indietro, però, la memoria non incontra un 'nero' soltanto, ma più 'neri' che non sono 'neri' e che tuttavia continuiamo a chiamare così per una convenzione 'notturna', grazie alla quale definiamo 'neri' quell'infinita serie di colori che si stratificano e si addensano a formar ombra e tenebra". Non "neri", quindi, ma "colori" di vita.

Sughi è un attento osservatore delle cose, un solitario, quasi uno scienziato di laboratorio che, attraverso le lenti del mondo, guarda il mondo stesso ponendosi davanti ai suoi molteplici paesaggi metaforici. "Cammino per la strada - scrive l'artista - e il volto che mi si avvicina e che fra poco lascerò alle spalle ha un colore, una forma e uno sguardo che si fìssa nei miei occhi; persone che non ho mai visto mi sembra di riconoscerle come se le portassi dentro di me da sempre. La gente che incontro sembra quasi uno specchio che non mi stanco di fissare". A questo proposito un'immagine adeguata mi è suggerita dalla maestria letteraria e creativa di Alberto Moravia, che nel romanzo La noia de­scrive il pittore che disfa e rompe la prima tela per poi ricostruirne una seconda e ricominciare. Definisco questa immagine adeguata perché dipinge, nel vero senso della parola, la non appartenenza di Sughi a quel tipo di pittori descritti da Moravia, che negli anni sessanta hanno tagliato la tela come Fontana. Sughi la tela non l'ha tagliata e non la taglierà mai perché sarebbe per l'artista un'evirazione, un affronto a Dio e alla genuinità fedele della natura.Un rapporto importante e fondamentale, dunque, quello tra letteratura ed arte. Un rapporto di cui nel dopoguerra soltanto Alberto Sughi si è innamorato, fatta eccezione per i grandi Guttuso, Vespignani e Attardi, i quali hanno anch’essi creduto che l’arte italiana poteva andare avanti raccontando l’avventura umana nei termini letterari. Contrapponendosi all’imperante moda della popart, al disfacimento consumista e allo sperimentalismo, se pur lecito, Sughi ha così rappresentato un’ipotesi. In fondo l’artista si trova in un mondo globalizzante. Siamo giunti al punto in cui la globalizzazione ci impedisce di individuare una macchina prodotta a Torino anziché a Toronto. La pittura, invece, così come viene raccontata da questi ultimi grandi maestri italiani, in questo mondo globalizzato dei cibi preconfezionati, è un racconto interessante perché vero, sofferto, di chi pensa che osservando quella persona in una sera come tante dentro un bar come tanti, abbia visto veramente la miseria umana di quell'essere o addirittura la miseria umana di se stesso, sensazioni confuse e sbiadite in un unico riflesso di vita. Se inserita in un mondo glo­balizzato e globalizzante, la pittura di Sughi è, quindi, una pittura che ha un proprio carattere eterno, impossibile da smarrire e che, di fatto, mai si smarrirà. Le opere di Alberto Sughi, e qui tocco il cuore della sua arte, sono straordinarie perché testimoniano il raccon­to profondamente letterario di un uomo colto, raffinato, schivo, isolato, amico di pochissimi intellettuali, una persona che sa raccontare le cose come le racconterebbe un grande scrittore italiano.

È mio dovere, dunque, ringraziare Alberto Sughi perché con lui, e grazie a lui, la pittura, la letteratura e soprattutto l'arte italiana del nuovo millennio riconoscono un testimone che ha saputo donare all'arte contemporanea un contributo fondamentale di ricchezza nell'aver narrato la leggenda dell'uomo comune. E non si può parlare di Bukawski, perché l'uomo di Bu-kawski finisce in una fogna dove non c'è fine, non c'è salvezza, non c'è speranza e non c'è luce. In Sughi questa fine potrebbe forse identificarsi proprio con la lu­ce, con la speranza, con la salvezza o addirittura con una vita nuova. Che fosse proprio la Vita nuova di Dante? La risposta a chi, da artista, da uomo o da entrambi i modi di concepire la quotidianità, vede nella sofferenza della vita di ogni giorno un piccolissimo bagliore di fiducia e di coraggio per poter fare un altro, microscopico, insignificante, meravigliosamente importante passo in avanti.

Alessandro Masi, Roma 2003

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saggio ripubblicato in La Societa' Dante Alighieri