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Dario Micacchi :

Alberto Sughi, Il Teatro d'Italia

Dare forma al flusso del tempo, fissare tutto quel che è mutevole e infinito non solo nella realtà sociale ma anche negli spessori e nelle voragini così poco scandagliate dell'io; imporsi (e fare accettare a chi fa domande e chiede risposte) un tempo di analisi e di riflessione, di progetto e di critica che sia un tempo lento, molto lento con tutto quel che ne consegue per l'immaginazione e l'esecuzione di un dipinto. E se c'è rapidità che sia il tempo giusto e necessario a tradurre pittoricamente la velocità dell'osservazione, dell'immaginazione e dell'esecuzione. Questa linea poetica di pittore d'una realtà sociale ed esistenziale assai mutevole e sempre imprevedibile nei suoi approdi, Alberto Sughi la tiene, con straordinaria aderenza alla vita, da trent'anni. Molto spesso il pittore è in solitudine anche quando parla, o crede di parlare, per una totalità di uomini, e anche per quanti non hanno ancora voce. Molto spesso il pittore deve produrre perché il pittore moderno che sia libero è storicamente solo ed economicamente relazionato, senza «religione» vuoi metafisica vuoi pratica magari di committenza. Ma tutte le volte che Alberto Sughi ha dovuto produrre, con più qualità e con più energia è venuta fuori la giustezza della sua linea del dare forma pittorica con un tempo lento e per la durata — non è mai una certezza ma una sfida — nel tempo lungo. Analisi, immaginazione e costruzione della pittura su un tempo lento che è proprio della pittura vera, antica o moderna, e che è un tempo altro rispetto al tempo della produzione di oggetti per il consumo, anche estetico. Alberto Sughi è un pittore assai curioso e appassionato di idee ma non è mai stato, non è un pittore di scorciatoie ideologiche — lo sono stati tanti pittori realisti socialisti e tanta parte delle neoavanguardie — e non ha mai opposto una sua utopia o un suo sogno di un mondo come dovrebbe essere al mondo com'è. Tutto il suo percorso di pittore, pure così vario e avventuroso poeticamente, lo conferma un pittore ossessionato dalla «lezione di anatomia» alla maniera di Rembrandt. Una verifica? Nei giorni del '68, quando fu corrente anche tra gli artisti l'utopia facile e violenta che la rivoluzione fosse un frutto maturo a portata di mano, Alberto Sughi, proprio come il chirurgo rembrandtiano, non si fece distrarre dalla sua «lezione di anatomia». Non ha mai creduto che si potesse rassicurare e tranquillizzare il mondo con la creazione artistica: eppure, tale sogno fu alzato nel cielo dell'Europa già dagli artisti della Secessione, da Otto Wagner a Gustav Klimt, in quel «laboratorio dell'Apocalisse» che fu Vienna tra il 1897 e il 1918. Al contrario ha sempre creduto che la pittura dovesse essere l'evidenza «tattile» non tanto della violenza clamorosa degli accadimenti storici ed esistenziali, di quelli che Giorgio de Chirico chiamava «segni manifesti», quanto dell'azione profonda e sconvolgente che tale violenza esercita nell'io individuale e collettivo; senza dover rinuncia­ re, da pittore, per questo a puntare lo sguardo su quei segni nuovi che potrebbero entrare nello spazio del quadro-vita. La pittura, a Occidente e a Oriente, è vecchia-giovane di secoli: l'uomo ha cominciato con le immagini, dalle immagini. Ha avuto secondo i tempi e i luoghi le più diverse funzioni (sempre cercando di vincere la morte e di durare oltre la morte come icona globale e collettiva dei bisogni umani): magico rupestre, rituale tribale, teofanica e di


potere religioso, di celebrazione delle imprese e delle persone del potere nelle sue più varie forme e gerarchie sociali, di espressione democratico/borghese o democratico/socialista dei bisogni materiali e spirituali di nuove classi e ceti emergenti dopo la rivoluzione francese e la rivoluzione sovietica, di espressione «hic et nunc» dell'esistenza quotidiana e dell'immer­sione nella natura. In ogni tempo e in ogni luogo, lo sviluppo immaginativo e tecnico della pittura è inseparabile dalla cultura materiale e dai suoi sviluppi. In ogni tempo e luogo, prima o poi, scienza e tecnologia nonché scoperte di nuovi materiali hanno agito sulla pittura e sulla sua techné. Nel novecento — si pensi alle ricche e aggrovigliate vicende delle avanguardie storiche — la pittura è stata arata profondamente come un terreno, ha dovuto rimettere continuamente in discussione la sua funzione. L'utopia — quella del Bauhaus — e la realtà — quella della rivoluzione sovietica — per un certo tempo fecero parlare di una morte-trapasso dell'arte negli oggetti d'uso di produzione industriale e di una nuova totalità urbanistico-architettonico-plastica che avrebbe reso il mondo reale più bello e più umana­ mente abitabile. Come si sa l'utopia è naufragata e la realtà è diversa. Oggetti belli, bellissimi hanno riempito il mondo ma il modno non è stato rassicurato e tranquillizzato. Ma il vero colpo alla pittura è stato dato nel nostro dopoguerra dopo un breve periodo iniziale della ripresa assai favorevole alla pittura perché legato alle risorgenti utopie e speranze sociali e, più concretamente, alle lotte sociali di liberazione che in Italia furono assai importanti ai fini della sprovincializzazione e dell'apertura internazionale (la giovinez­ za di Alberto Sughi si fece forte allora della concretezza italiana delle lotte sociali). Tale colpo, in qualche momento è sembrato mortale, è venuto dalla crescita di industria, scienza e tecnologia in progressione vertiginosa, tale che l'uomo di tutti i giorni non la controlla più, ne fa uso ma ne ha paura, e resta comunque da essa separato. È poi cresciuto, mercato tra i mercati, in modo abnorme il mercato d'arte (sono gli Stati Uniti e non più la Francia a far da locomotiva). E Alberto Sughi appartiene a quella generazione di artisti che ha visto passare la pittura dalla produzione di oggetti estetici altamente spirituali e ideali o ideologici alla produzione di oggetti che sono moneta e circolano come tali. Le ricerche e i tentativi di uscita dallo spazio del quadro nello spazio ambientale per un'arte che voleva essere vita, negli anni '60 e '70, sono stati riproposti dalle neoavanguardie come varianti di un'arte/non­ arte di consumo e a rapida sostituzione materico-linguistica secondo un'ideologia di progresso umano continuo che voleva essere la forma artistica di una crescita industriale e tecnologica dove il consumo di massa acquistava una dimensione totale e infinita mai avuta nella storia umana di tutti i paesi della terra. Spettacolare, pubblicitaria, oggettuale o comportamentale e concettuale, l'arte delle neoavanguardie è finita nella stupidità totale del prodotto-non prodotto senza più soddisfare nessun bisogno di nessuna specie: nemmeno ludico, nemmeno erotico. Le neoavanguardie sono già archeologia come certi giganti dell'industria obsoleti. Il costo umano e poetico della crescita delle neoavanguardie sulla crescita dei consumi di massa è enorme e tragico. C'è stata una gravissima perdita di capacità di analisi e di coscienza, di potenziale critico e di progetti. Fotografia, cinema, soprattutto televisione e immagine elettronica si stanno mangiando la pittura e le ragioni moderne del fare pittura. Sono avvenute e sono in atto tali e tante modificazioni esistenziali e sociali per l'invasione degli automatismi computerizzati, sotto il controllo di pochi, e con una paurosa egemonia militare, che mentre fanno sempre più chiaro il campo della


produzione e del consumo di massa rendono sempre più buio il campo umano nel presente e nel futuro. Sulle ceneri delle neoavanguardie la pittura dipinta è tornata come un'alluvione. Sono stati aperti tutti i magazzini di tutto. Si ricicla tutto fuggendo dal presente: alcuni, gli Anacronisti, volgendo lo sguardo indietro con struggente nostalgia per la pittura antica e la bellezza antica; altri, i Transavanguardisti, saccheggiando come e dove possono, selvaggi e primordiali in jet sulla linea Roma-New York, forti di un trust di mercato che sa vendere bene la «salutare incertezza» dei nostri giorni. Modi e tempi del consumo, col nuovo apporto dei media, sono forse più accelerati ma sostanzialmente restano quelli del mercato delle neoavanguardie. Ora, però, questa specie di pittura alza la bandiera del made in Italy come fanno gli stilisti della moda che in questi primi anni ottanta giuocano anche loro la parte di artisti capaci di tenere assieme stile e produzione e consumo. Un pittore esistenziale della realtà come Alberto Sughi non appartiene a questo sistema dell'arte e non soltanto per il motivo che appartiene a una generazione invece che a un'altra. Siccome è un pittore esistenziale e quotidiano autentico, egli vive il tempo suo, è curioso di tutto ma nella relazione sempre cercata subisce un attrito tremendo. Sta sui fenomeni e sugli accadimenti che produzione e consumo generano; ma la sua sensibilità più profonda, il suo cuore e i suoi pensieri vanno a cercare quelle costanti magari sempre più nascoste che fanno un uomo e un mondo umano. La pittura, che sempre era stata inquieta e inappagata negli anni '60 e 70, s'è fatta allarmata tanto da spingerlo a cercare, per tutto il 1983 e i primi mesi del 1984, un'immagine globale e significante, un'icona nera, dove per la prima volta tutti i personaggi in positivo e in negativo che egli ha dipinto in vita sua potessero star fuori del quadro e vedere tutto il negativo e la melanconia fissati in quel gran quadro di storia (nessuno ne fa più) che è la messa a nudo del «Teatro d'Italia» con tutte le ombre, le tenebre e la tempesta che l'accompagnano, alla maniera di un truce e sordido Olimpo. In questo tremendo telerò, certo un capolavoro di maniera italiana stupefacente per la realtà orrida che i più di venti convitati di pietra hanno portato sulla ribalta e per il frutto imprevedibile nato da quel seme francese, tra Daumier e Degas, passati al setaccio degli accattoni blu e dei saltimbanchi rosa di Picasso, che Alberto Sughi giovanissimo trapiantò nella pittura italiana nuova quando la «religione» del moderno era il neocubismo; la ricerca delle costanti che fanno un uomo e un mondo umano, siccome approda all'evidenza disperata di una grande assenza contro la luce di tramonto corrusco dei ruderi del Palatino, arriva al grido amplificando quello che fu il grido di Munch. Concorrono a costruire questa grande e terrifica immagine italiana ragioni e aspetti della pittura contemporanea che nella sua visione esistenziale Alberto Sughi ha spesso usati, separati, per dare forma a quell'attimo e a quel gesto dell'esistenza attraverso il quale gli si rivelava la privazione di libertà, l'umiliazione, l'offesa, l'emarginazione, la devianza, la solitudine assoluta nel pieno della ricchezza e del potere. La bellezza suprema del nero — sarebbe piaciuta immensamente a Charles Baudelaire ma potrebbe piacere a Federico Fellini o ad Herzog e Tarkovskij — con quei guizzi del viola livido che passa dalle labbra alle cravatte, con quel rosso grandeggiante come un'emorragia nella figura del magistrato, con i due ballerini che in un altro tempo e in un altro spazio inseguono un'armonia che non appartiene a questo tempo dei convitati di pietra e così «dicono» che c'è uno spazio-tempo altro possibile; la bellezza assoluta del nero, dico, è l'acme di tanti altri neri dipinti negli anni da Alberto Sughi e consegnati a un abito, a un notturno, a un volto, a


uno sguardo, a un gesto. Tutta la pittura sua, nel variare dei motivi, è sempre stata un inseguimento, una caccia spietata, appassionata e critica, al ritrovamento della durata delle costanti umane dell'uomo-mondo in qualsiasi situazione esistenziale di individuo, di gruppo, di collettività. Scrivere di un pittore come lui che, per tanti anni, è stato contro corrente quando si diceva che la pittura era morta e, forse, di nuovo contro corrente è oggi con un quadro di storia quando la pittura è malata di nostalgia dell'antico e fugge il presente fingendosi selvaggia, comporta un'attenzione speciale da parte di chi fa cronaca, critica e storia dell'arte moderna; perché la storiografia e quella che un tempo si diceva critica militante sono diventate attività manageriali o pubblicitarie magari computerizzate. ...A rivedere e a ripensare tante e così variate figure umane dipinte in trent'anni una costante emerge con grandiosa, terrificante evidenza: l'attrito tremendo col mondo ostile di un uomo che vorrebbe venire avanti ed è sempre ricacciato nelle abitudini, in percorsi ripetitivi e ossessivi, in rituali suicidi, in un battere e ribattere di insetto che insegue la luce contro il vetro. Potremmo dire che è l'evidenza dell'energia umana che non raggiunge il fine moderno liberatore: c'è una resistenza potente e occulta alla liberazione. Alberto Sughi l'ha sempre sentita e dipinta come spazio murato di ombre attorno alle sue figure. Deve avere segretamente riflettuto molto sulle sue creature poetiche e sull'Italia reale di cui continuava ad avere esperienza diretta anche in forza di quelle porte aperte che gli uomini del potere lasciano ancora graziosamente aperte agli artisti.

Un giorno del 1983, dopo aver dipinto una splendida puttana sovrana che porge la mano al bacio di uomini vestiti di nero — ricordate Charles Baudelaire che cantava il nero dell'abito moderno che ci fa becchini sempre in movimento per qualche funerale? — prese due tele di due metri per due, le preparò all'antica sul rovescio ruvido e cominciò, giorno dopo giorno, la caccia pittorica a quei personaggi occulti che sanno imbrigliare e deviare l'energia umana di liberazione. Così è nato, tentativo dopo tentativo e fino all'ultimo sul filo del fallimento dell'immagine globale, «Teatro d'Italia», uno straordinario quadro di storia quando non se ne fanno più: un pittore solo con un dipinto solo è riuscito a fare più trasparenza e chiarezza di tutti i processi che si siano cominciati in Italia. È un'immagine fosca, tragica, allucinante: tanti personaggi dell'Italia contemporanea riuniti su una ribalta, illuminati con un formidabile sotto in su daumeriano, contro il paesaggio sublime e tempestoso delle rovine del Palatino. I personaggi, ancora una volta, somigliano sempre a qualcuno ma non sono nessuno in particolare. Trionfano il nero e i colori lividi come quel sublime viola che guizza dalle labbra alle cravatte, come quel rosso di sangue che sembra ardere della toga del magistrato centrale. La prostituta che chiude l'immagine a sinistra in alto, vicino al grande papa potente e oscuro, è ancora una figura umana rispetto alle altre. Le altre due donne che svettano sulla composizione come due creature del made in Italy di Versace, Missoni e Armani sono la sublimazione di tutto quel che circola nel quadro di assassino e di funereo. È impressionante il legame tra tutte queste figure del mattatoio italiano che Alberto Sughi ha bene inteso e bene evidenziato plasticamente. La loro frontalità è sfacciata, aggressiva, lurida. Non hanno gesti ma sono quelli dei gesti che contano, che li fanno o li fanno fare. Una volta tanto è la pittura a fare gli identikit. Il sole nero. La «lezione di anatomia». Daumier dipinse il ventre legislativo, Rembrandt la lezione di anatomia, Goya i fantasmi orridi della Quinta del Sordo, Courbet il seppellimento a Ornans. È questa tradizione che porta avanti in


maniera folgorante Alberto Sughi. A pensarci bene la luce viene dalla parte di noi che guardiamo, che siamo fuori: è lo sviluppo formale supremo di una tecnica prediletta dal pittore. Ma in questo stupefacente «interramento», non a Ornans ma a Roma capitale di una repubblica che in tanti non vogliono più, c'è una contraddizione luminosa di contenuto e di forma: i due ballerini che accennano un'entrata, un passo di danza su una ribalta che potrebbe essere altra. Sono due figure di una bellezza e di una musicalità serena che appartengono a un mondo altro. La luce d'amore che li spinge l'un verso l'altro è quella della giovinezza del secolo aurorale che ha i suoni di Debussy e Ravel, di Strawinskij e Prokofiev, di Schònberg e Bartok. Come non ricordare che è sul passo delle ballerine di Degas e dei saltimbanchi di Picasso che il sogno del secolo umano, prima del sogno futurista del secolo della macchina, si avvia? Provate a immaginare questa ribalta finalmente libera dalle figure nere portatrici di morte e che i due ballerini volteggino nello spazio aperto e liberato con quella musicalità, quella levità e quella grazia che li stacca dalla ribalta dei potenti. È ancora l'utopia viva, il sogno di un mondo altro che la pittura ci affida nel bel mezzo di «un interramento a Roma».

Dario Micacchi, A.Sughi il Teatro d'Italia

( Edizione a cura dell'Amministrazione Provinciale di Caserta, 1984).

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