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Antonio Del Guercio

Di un viaggio di Alberto Sughi, tra il naturale e l'umano.

Ebbi due anni fa - per la ben calibrata mostra antologica di Alberto Sughi a Ferrara (Palazzo dei Diamanti, 17 aprile-22 mag­gio 1988) - l'occasione di una analisi articolata del percorso di questo pittore, e dei nessi della sua vicenda (che sottolineai "a- perta") con il contesto italiano e internazionale. Qui, a Casa Masaccio, nuova è l'occasione; rinvio dunque chi vorrà pren­dersene la pena al mio testo ferrarese per un discorso più ge­nerale, mentre tenterò qui di rispondere alle sollecitazioni che vengono - per il pubblico come per il critico - dalla struttura peculiare di questa mostra toscana. E una struttura che si presenta come bipartita tra due serie, o, per dir meglio, cicli d'opere. Un ciclo che il colore dominante segna come "verde", qui presentato con opere dal 1965 al 1973; e un ciclo che il pittore ha denominato "La Sera", qui presentato con opere dal 1985 a oggi. Entrambi i gruppi d'opere hanno una intensa organicità e una portata autonoma. Al tempo stesso, tuttavia, un sottilissimo ma resistente filo di linguaggio, di sentimento e di senso li collega, al di- là delle variazioni - e della crescita - della ricerca del pittore nel tempo che li separa. Nel primo ciclo, quello delle opere "verdi", la qualità speciale del colore dominante segna l'insi stenza testarda del pittore nell'inseguire - dentro il tema della natura, anzi della vegetazione - un nucleo poetico che coinvolge, implica e chiama molti e diversi livelli di vita. I pensieri, infatti, che animano queste pitture pare di vederli "volitare" da un quadro all'altro, a tessere una rete che di volta in volta s'appiglia a un tema, ma come in una danza di reci­proci richiami, di rapporti analogici, di cenni evocativi. Ed ora è la memoria del Mediterraneo silente, immoto e fatale, di Bòcklin a comparire; ora, invece, tutto palpita in un infinito gioco di echi e rispondenze, come nella "mer toujours recom- mencée" di Valéry, "entre les pins... entre les tombes". Oppure, lo sguardo viene quasi violentemente attratto a fissarsi - ravvicinato all'estremo - sopra una siepe di verde intenso, cupo e inquietante - per scattare poi, in un'altra pittura, verso l'inaffer­rabile architettura di un cielo aperto. Ombre, mura, giardini, case, esseri umani, di volta in volta si presentano al centro poetico d'ognuna di queste opere, recitandovi una parte di protagonisti ora discreti ora perentori, sempre pungenti, non di rado carichi d'un sottile disagio: come fossero consapevoli, gli uni come gli altri, d'occupare provvisoriamente lo spazio che li trascende nella sua infinita curvatura cosmica, ma nella certezza di essere inequivocabil­mente capaci di trasmettere al riguardante la consistenza critica ed emozionale, insomma il valore, del loro "relativo" esistere.Vorrei poi sottolineare, anche se ciò appare implicito nelle cose che ho detto sinora, che il dato di natura non è mai segnato qui da aspetti diminutivi o riduttivi di "resoconto" paesistico. Vero è, d'altra parte, che esso non è puro pretesto, semplice veste esteriore, o cassa di risonanza, di una effusione emotiva. Qui il dato di natura sta in un altrove rispetto a quelle due opposte varianti dell'incontro fra arte e natura. Sta - il che ha da essere indicato come un passo ulteriore e caratterizzato che Sughi compie con le opere di questo ciclo, rispetto al proprio precedente corso - dalla parte, direi, della natura intesa come pulsazione di materia vivente, organica, vitalmente cieca, inarrestabile nelle sue infinite trasmutazioni; dalla parte di Cour- bet in qualche modo - anche se tutte le altre suggestioni che in precedenza lo hanno attratto non vengono recedute o tradite. Ma è certo che una simile accezione del dato di natura incide sulla elaborazione del linguaggio - il quale, proprio durante questa fase, fa convergere verso esiti nuovi l'intera sua esperienza di "realismo esistenziale", per riprendere una fortunata definizione critica che ha rivelato la sua validità nel tempo. Esiti nuovi di senso, e perciò di linguaggio. Forse qualcuno preferirà invertire i termini, e dire che questi esiti sono nuovi di linguaggio e perciò di senso: perché no. A me, nelle questio­ni di precedenza tra l'uovo e la gallina che spesso affliggono il dibattito estetologico, interessa solo che l'uno e l'altra vengano presi in pari e consustanziale considerazione. Esiti nuovi, dunque, caratterizzati come da una sorta di corrosione dall'interno dell'aspetto critico-denunziante della pittu­ra di Sughi, a favore di una più radicale immersione nella vert ticale dei sondaggi nella coscienza inquieta, e di una più segreta ricerca degli ineffabili rapporti fra coscienza inquieta ed enigmi naturali e cosmici. Mi si consentirà di dire che Alberto Sughi è andato incontro alle ineludibili e insolubili e necessa- rie domande leopardiane, in un viaggio che non a caso attraversa, con le opere del ciclo "verde", un momento, non breve, di intensa interrogazione della vivente materialità della natura. E questo viaggio, o per dir meglio l'itinerario di questo viag­gio, da intendersi come "viaggio di ritorno" secondo le tradizioni iniziatiche, tesse il filo di linguaggio, di sentimento e di senso che collega al ciclo delle pitture "verdi" il più recente ciclo de "La Sera". Un ciclo annunciato, si vorrebbe dire, nel sen­so che per molti versi l'intero precedente lavoro di Alberto Sughi sembra chiamarlo, o, se si vuole, lo rendeva necessario: non a caso vi si ritrovano alcuni tópoi ricorrenti, o intermittenti, della pittura sua: dal tema della figura umana accampata dentro uno spazio che è al tempo stesso luogo definito e abisso entro il quale essa si perde, alla omndiffusa qualità di soli­tudine meditativa che promana da luoghi e cose. Ora, questo accadimento annunciato non è un accadimento scontato. Qui, infatti, i motivi ricorrenti della pittura di Sughi risultano profondamente modificati anche (ma forse soprattutto) da quel passaggio "verde", da quella più radicale e perigliosa e cieca immersione entro gli universali enigmi. Quel passaggio introduce nella contemplazione sughana, criticamente consapevole, inquieta e spesso dolorosa, la tensione verso un annullamento della distanza fra pittore e cosa. Già nel citato testo per la mostra ferrarese del 1988 avevo detto del "particolare equilibrio che viene a stabilirsi fra i personaggi e i luoghi, quasi come un breve momento di ferma o di sospensione delle turbolenze esterne o interne", e di un "silenzio intriso di melancholia". E a ragion veduta, in quel testo ave­vo più volte evocato il nome e la lezione di Alberto Giacometti - ossia del pittore, fra quelli che ho avuto la ventura di incontrare - che con più decisa e stoica radicalità sapeva parlare di una fame di realismo e del risvolto di questa fame - che, come egli diceva, era l'impossibilità di placarla entro il flusso inarrestabile dei mutamenti esistenziali e fisici, dell'artista come dei suoi oggetti, lungo la direzione irreversibile del tempo. L'impresa del realismo, dunque, come desiderio o necessità, e al tempo stesso come impossibilità; e l'arte come tensione subli­me fra i due termini. L'antico tema della melancholia ebbe, credo nel Giacometti che andò al di là della propria esperienza surrealistica (peraltro bene originale), una versione nuova successiva a quella che, all'inizio della vie moderne (o all'inizio della registrazione acuta dei traumi della vie moderne), viene elaborata da Baudelaire. E dal poeta al pittore-scultore sta come tratto d'unione il tema urbano; tema che Giacometti oggettiva nella rastremata asperità delle sue sculture filiformi e nella griglia dinamica delle linee dalle quali, nelle sue pitture, i corpi traspaiono. Questo tema, Sughi lo fa suo per altra via. Anch'egli abolisce o riduce al minimo gli scenari della vita urbana, che pure in altri momenti (si pensa al ciclo de "La cena" sulla metà degli anni Settanta) aveva allestito; anch'egli introduce - o insinua - il dato del flusso inarrestabile delle mutazioni esistenziali e fisiche che rendono sempre "approssimato" (e sia detto nel più diretto significato originario della parola) il rapporto del singolo con il mondo, donde l'inevitabile senso di una perdita fatalmente inerente a tale rapporto: una perdita che si può riavvicinare a quella di cui parla il secondo principio della termodinamica, e che suggerì in tempi relativamente recenti l'introduzione nel dibattito critico d'un termine come quello di entropia, sia pure con motivazioni e valutazioni assai diverse da parte dei suoi diversi "utenti". All'interno della propria partecipazione al travaglio dell'arte contemporanea su una tematica che ne perimetra una delle aree più decisive, Sughi elabora la propria originale risoluzione dell'antico tema della melancholia. Ed è lo sfioccamento del tessuto pittorico dentro una luce che, anche quando s'indora, evoca - del tema dichiarato della sera - lo stato incerto dell'animo che essa non tanto forse induce quanto incarna. Uno sfioccamento che non diventa mai labilità
o fragilità o povertà riduttiva del tessuto pittorico, il quale invece palpita del proprio autonomo palpito, in nulla subordinato a imperativi iconografici. Sicché dall'intrico delle forme brulicanti, per così dire localmente astratte, va a comporsi sulla più ampia superficie della tela una immagine che direi strutturalmente organica: non solo poiché la materia pittorica vi riporta quella nozione vivente del brano di natura che la fase "verde" aveva elaborato, ma anche nel senso che, ricondotti nello stesso livello di vibrante e de-gerarchizzata materialità, corpi e ambiente sono parimenti attraversati dalla medesima
pulsazione inquietamente meditativa. Una pulsazione che tuttavia si riconduce ad una strana e sospesa calma, che segna fortemente il più recente approdo poetico del pittore.

Con il ciclo de "La Sera", Sughi fornisce al contesto artistico attuale un apporto di cui mi sembra difficile non scorgere la rilevanza. Un apporto che giunge peraltro in un momento delicato e complesso della situazione dell'arte sull'orizzonte internazionale, un momento che tuttavia da spazio ad aperture nuove e significative. Tra le quali, intanto, quella che accoglie il desiderio - che è di non pochi critici attivi oggi in diversi Paesi - di provocare una rilettura delle vicende artistiche del dopoguerra; in particolare, di alcune tendenze e personalità che
fanno seguito alla stagione strettamente post-bellica, dopo l'esaurimento delle prime ondate dell'arte informale. Mi riferisco alle esperienze, sia di orientamento figurativo sia di orientamento astratto, che lungo gli anni Sessanta e Settanta risultano meno intensamente frequentate di quanto in verità non meritavano, rispetto all'attenzione - davvero troppo pre­ponderante - accordata ad altre come l'arte pop americana, i concettualismi e i minimalismi. Delle quali non ho alcuna intenzione di negare la rilevanza, visto che ne ho seguito il cor­so, di volta in volta dando o limitando, o negando anche, con­senso, secondo coscienza, come si dice. È certo che da alcuni protagonisti delle vicende astratte e op (si pensi soltanto a quella cospicua pittrice che è Bridget Riley, tuttora in attesa del risarcimento che a buon diritto la critica italiana ha fatto della pittura di Carla Accardi) all'intero ramo inglese dell'arte pop e alle figurazioni critiche europee entro le quali prende spicco la vicenda di Sughi, una rivisitazione attenta e impregiudicata s'impone. Una rivisitazione che peraltro, e per quanto riguarda le figurazioni critiche europee, è resa ancora più inderogabile dall'in­tervento inatteso sull'orizzonte internazionale di alcuni artisti giovani (valga per tutti Eric Fischi), riconoscendo i quali davvero non è più possibile non porsi una serie di precisi quesiti: non solo riguardo, per esempio, alla fertilità della lezione di Edward Hopper (alla quale mi riferisco congiuntamente, anche se ne sono evidenti le diverse risoluzioni, per Sughi come per Fischi), ma riguardo ad un intero arco storico che rinnova decisamente la propria fertilità a partire dagli anni Sessanta, con proseguimenti e nuovi apporti che si articolano successi­vamente, e che sono tuttora in atto. Il nuovo sguardo che oggi possiamo dare al diversificato contesto che ho evocato avrebbe - avrà - la stessa importanza di quello che, nei primi anni Sessanta, vide impegnati alcuni critici, soprattutto italiani e francesi, nella rilettura (che allora definimmo "policentrica") dell'arte contemporanea nel suo corso intero, rilettura che impose una nuova attenzione a non poche vicende restate in ombra rispetto agli aspetti tradizionalmente considerati più centrali della vicenda di questo secolo. Queste sono nello specifico dei nuovi esiti di Sughi e in riferi­mento al contesto più generale, le ragioni che giustificano, solidamente credo, una rinnovata attenzione - che da vari segni appare accesa - al lavoro in progress di Alberto Sughi.

Antonio del Guercio

(Milano 1990)

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