albertosughi.com

Enrico Crispolti

Presentazione della personale di Alberto Sughi alla Galleria Forni, Bologna, 1993.

Copertina del catalogo della mostra di Sughi alla Galleria Forni, Bologna 1993

Sughi presenta qui l'aspetto ulteriormente svolto del nuovo suo ciclo pittorico intitolato "Andare dove?", avviato nel 1991, ma riguardante soprattutto il 1992. E che si riconnette a quanto del medesimo, appena iniziato, ha esposto qualche mese fa a Roma nella tornata di "Profili" della Quadriennale. Ove anzi, riproponendo in apertura di sala un dipinto quale Uomo seduto nel verde del 1972, pittoricamente assai folto nell'impianto succoso quasi monocromo, virato naturalmente sul verde, e due dipinti del 1986-87 e del 1989, rispettivamente, sul tema "La sera del pittore" di stesura già invece più sommessa e fluttuante, immersi in un clima come di attesa, dubbio e ricordo, del nuovo ciclo suggeriva le premesse sia prossime, sia in qualche modo remote. Ora la casa gialla di quei dipinti del 1991 e inizio '92 è diventata rossa, sempre connessa ma psicologicamente ancor più alla vicenda del solitario suo abitatore, immersa come in un lussureggiante parco. Ma soprattutto si è come venuta accentuando la sconnessione di una logica spaziale unitaria verso un'evenienza puramente in assottigliato spessore di memoria. E il protagonista, più che a stare o passeggiare come in quelli, è sul procinto di abbandonare il luogo per un dislocamento ignoto: lo mostrano le valigie che impugna, o a lui vicine. Mentre l'ambiente si sdefinisce appunto sempre più, corrispondendovi una scrittura pittorica molto libera, appena allusiva, ed ellitticamente quasi distesa su una superficie. L'uomo lascia la casa rossa, che naturalmente acquista, nel suo colore così pregno di valenze simboliche storiche, una assai probabile motivazione emblematica. E sta per avventurarsi dubbioso verso un ignoto. Lascia infatti quel luogo la cui identità si va vanificando per "Andare dove?". Se certo già nei dipinti esposti da Sughi alla Quadriennale lo spazio appariva prospetticamente allentato nei suoi nessi, ora lo puoi dire come appiattito, risolto interamente in fluttuanze di arabesco di segni e tracce cromatiche a stesura quasi in velature larghe, di maggiore o minore consistenza. E risulta ininterferente direttamente, come sfalsato, rispetto allo sguardo recitante (non trattandosi ora certo di voce narrativa); allo sguardo riflessivo e interrogativo del personaggio rinnovato protagonista. Che assiste ad un processo di ineluttabile dissoluzione di una riconosciuta dimensione di realtà, ad un di sfacimento di sensi e rapporti di un mondo praticato, ora ridotto in frammenti come squamati e riconnessi soltanto in una sorta di convenzione memoriale, che li offre riscritti in traccia quasi su un avvolgente e totalizzante sipario. Il dipinto chiave del ciclo mi sembra essere quello intitolato Addio alla casa rossa. Ci offre la condizione dello spettatore di una visione dissolutoria che ineluttabilmente lo sovrasta, coinvolge e domina, quasi il suo sguardo individuale stupefatto e rassegnato a tanto si confronti con uno spettacolo di frantumazione, di sconnessione appunto, come di uno specchio che si rompa, svelando anche l'inganno di quanto unitariamente era capace prima di offrirci. Chiaramente Sughi è impegnato ora ad uscire definitivamente dal racconto di una dimensione esistenziale vissuta e da vivere, per entrare invece in una situazione di pura libera evocatività, e dunque di nessi sostanzialmente psicologici e appunto memoriali. La sua pittura risulta affinata nel senso di una scrittura mobile, quasi alitante, ove ogni elemento si libera di peso, a costituire dunque un puro sipario di tracce e accenni meramente di relazione immaginativa. Il suo racconto, semmai, ora non è più entro il singolo dipinto, ma si propone attraverso i diversi dipinti che costituiscono il nuovo ciclo, nel loro susseguirsi di varianti quasi temporali di un'analoga situazione di distacco, d'abbandono. Il tema della solitudine è più che mai cruciale ancora nella pittura di Sughi, ma in termini nuovi. Se alla fine degli anni Cinquanta e Sessanta (per esempio in dipinti come La strada, 1959, o Uomini al bar, I960) si trattava di solitudine sottolineata emblematicamente diciamo entro una situazione, risultava cioè in qualche misura sociologica (e di implicita critica politica), individuale ma come coralmente ribadita, e certo di motivazione sostanzialmente esistenziale, ora sembra trattarsi di una solitudine soltanto individuale (persino autobiografica forse), e a livello tutto psicologico, se non implicitamente addirittura ideologico. La storia pittorica di Sughi si fonda su un approfondimento dell'individualità esistenziale solitària, in particolare lungo gli anni Sessanta attraverso le figure emblematiche del borghese o del politico, in uno spazio concreto, angosciato, riflesso del rovello del singolo, della sua disperata condizione di invalicabile unicità sociale. E fra gli anni Settanta e Ottanta si è dato anche il respiro del grande affresco sociologico, da La cena, 1976, quasi di sfida iperrealista, a Teatro d'Italia, 1983-84. E rimane consegnata, per quel percorso, ad una vicenda di realismo esistenziale nato sulle rovine di un realismo invece esplicitamente di denuncia sociale, ideologico, negli anni stessi nei quali Guttuso medesimo (che ne fu, com'è noto, il "leader") ne avvertì più stringenti le motivazioni, peraltro ragione sostanziale del lavoro dei più giovani di allora. Tuttavia indubbiamente nella ormai lunga storia pittorica di Sughi si è venuta aprendo da metà degli anni Ottanta una nuova e diversa stagione della quale avvertiamo per ora il culmine nel ciclo in questione. E le cui premesse ci riportano coerentemente in particolare ad un atteggiamento di distanziata riflessione (configurata nella presenza dello sguardo recitante) manifestatasi già nel ciclo del 1985-86 che appunto si intitolava La sera o della riflessione. Ed era una riflessione contemplativa e interrogativa che si dava consistenza di immagine nel comportamento assorto di un protagonista di fronte al lontano di un paesaggio marino, come per esempio nel vivido e fascinoso Tramonto sul mare, 1985-86. Ma allora tutto si offriva in una unitarietà spazio-temporale d'azione (o comportamento) figurata. Il protagonista vi scruta interrogativamente l'orizzonte di un lontano tuttavia a portata plausibilmente commensurabile. Guardava, vedeva. Poco dopo il tema de La sera del pittore, nel 1986-87, ne suggeriva il confronto, più che con il proprio spazio quotidiano, con il relativo vuoto. Ma è nella ripresa di tale tema, due anni dopo, nel 1989, in La sera del pittore, nella distanza, che le coordinate spaziali si indefiniscono, e cominciano ad intromettersi i fantasmi del luogo. Il protagonista, più che osservare, allora si può dire: sente. È avvolto ambientalmente, cominciando a perdere l'implicita nozione dei nessi spaziali, non più metrici quanto psicologici. Credo risulti un momento innovativamente cruciale nella lunga storia pittorica di Sughi, entro la quale più precisamente, alla luce dei suoi esiti più recenti, sarà dunque da distinguere come conclusa una lunga stagione di realismo esistenziale. Che negli ultimi anni Cinquanta e nei primi Sessanta lo ha visto lavorare sul volto solitario, perciò individualmente angosciato, della società opulenta protagonista del "boom" economico, sottolineandone la solitudine sociale attraverso il racconto di situazioni in luoghi topici (strada, bar, cinema, convegni ufficiali, cabaret). Vedi dipinti (oltre i ricordati) come La scalinata sul Lungotevere, 1959, II grande bar, 1959-60, ecc. Quindi, nei primi Sessanta, lo ha spinto ad esplorare la condizione di risvolto privato di una solitudine colta entro l'intimità domestica (i temi, vividamente proposti in una figuratività dinamica risolta in modi di sapienza corsiva, dell'uomo che fuma, che si infila i guanti, che si spoglia, della donna sul letto, degli amanti, ecc). Per configurarsi poi, a metà dei Sessanta, in critica sociologica (L 'ora storica, 1964, Classe dirigente, 1965, per esempio), in una traiettoria alla quale si riconnetterà idealmente una decina d'anni dopo il ricordato La cena. E tuttavia attraversando un momento di levitazione immaginativa assai singo lare, anche se per allora circoscritto, quale fu quello rappresentato dai dipinti sul tema della "casa abbandonata", all'inizio della seconda metà dei Sessanta stessi, in una sorta di visionarietà domestica {Uomo tra gli oggetti, Le mani nel cassetto, La stanza abbandonata, 1967). Mentre, al di là di una fase di pittura più densa e caratterizzante, di sfida persino in certo modo iperrea-lista (culminante appunto in La cena, 1976), tra fine dei Settanta e inizio degli Ottanta, il ciclo della "famiglia" illustrava, nel momento d'un realismo su-ghiano più capzioso, la sfera dell'intimità domestica, oggettivandone quasi munchianamente alcune tensioni psicologiche. D'altra parte, subito dopo, Tramonto romano e Teatro d'Italia, nel 1984, in certo modo sigillavano, archiviandola, un'ambizione, a mio avviso di esito un po' troppo programmato, di grande affresco di critica sociale. E non è un caso, credo, se il riscontro, immediatamente successivo, nelle sue intenzioni più avanzate affondi invece sul tema della solitudine del tutto individuale, aprendo ad una riflessione interrogativa (il tema appunto della "sera del pittore"), fino alla definizione di distanze. Chiaramente commisurate queste dallo sguardo recitante, impersonato dal protagonista seduto di dipinti quali La sera o La veranda, del 1990. Quello sguardo rivolto ad un paesaggio serotino che va sdefinendosi in un fluttuare denso di ombre. La solitudine non si confronta più allora con una realtà d'esistenza circostanziata (anche socialmente), quanto quasi con un destino individuale. Come se il protagonista attendesse un segno, una rivelazione, riflessi. Il paesaggio (anche se identificabile ancora per romano) in realtà perde d'identità, altrettanto che perde di configurazione allontanandosi. La solitudine individuale la si riscontra rispetto a tale distanza, che si fa sempre più consistente, non tanto tuttavia in quanto commisurabilmente, ma concettualmente. In realtà il protagonista si interroga appunto sul proprio destino di fronte ad un paesaggio che è già sipario in qualche modo d'estraneità, pur goduto nella sua struggenza. E credo che un'attenzione particolare meriterebbe il Sughi specificamente paesaggista, non solo di questi anni, peraltro appunto cruciali, ma anche, corposamente descrittivo allora, dei primissimi anni Settanta. Ma si tratta ora di un paesaggio che si sfalda sul metro dell'evocazione lirica, anziché imporsi nella sua vitale evidenza. E nell'evocazione sensitiva del quale Sughi esercita una libertà nuova di movenze pittoriche, di sfrangiate ricchezze di gamme e di rapporti. Ed è la premessa della libertà di scrittura, più rastremata, più sintetica tuttavia, con la quale definisce il campo pittorico, d'affondamento vegetale, attuale: quel sipario con il quale l'uomo con la valigia si confronta. La svolta operatasi nel percorso pittorico sughiano, pur non rappresentando una frattura, si fa dunque assai pronunciata nei primi anni Novanta, e suppongo apra ad una dimensione immaginativa nuova, ove la evocatività domina, nei modi d'una elegia della solitudine del tutto individuale. Dell'individuo infatti che non soltanto si riconosce condannato solo entro il contesto sociale, ma solo e smarrito di fronte al tutto, alla dissoluzione di ogni riferimento, al proprio destino più che mai insomma. E dunque ritrova la sua legittimità d'interrogazione individuale, drammatica ma non disperata, se può contare sull'affabilità lirica che una lunga esperienza gli offre. Non d'orientamento certo, quanto di possibilità di saggiare, e di confessarsi, e proprio forse attraverso la pittura rompere il circolo di una solitudine che prima soprattutto invece si impegnava a denunciare nella condizione sociale contemporanea. Una fuga? Non credo. Piuttosto forse l'inizio di un viaggio, confidente nell'ignoto. Ed è come un rovesciamento della denuncia della solitudine quale privazione e iniquità, nell'accettazione di questa quale invece luogo di una possibile maggiore identità individuale.

E. Crispolti, presentazione della personale di Alberto Sughi alla Galleria Forni, Bologna, 1993.

© 1997-2005 questa pagina e' esclusiva proprieta' di albertosughi.com
La copia e distribuzione, anche parziale, richiede autorizzazione scritta di albertosughi.com

albertosughi.com
testi/texts/onLine