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Marisa Vescovo

Narrazione sulla soglia dell'ombra

Copertina di Origini, Quadrimestrale di Segno e Poesia
 
..................................................................... .............. Alberto Sughi, Caffe', 1999, Acquaforte

L'arte figurativa si pone come un legame attivo tra l'anima e la natura, ed essa può essere colta soltan­to nel centro vitale che sta tra le due. Per un filo­sofo come Schelling è perciò errato il lavoro d'imi­tazione della natura a qualunque costo, così come è ingiusto imitare solo il "bello" che essa propone, visto che è assai problematico distinguere tra il bello e il brutto. Secondo il filosofo l'artista deve inizialmente allontanarsi dalla natura per coglier­ne le sembianze nell'imitazione, questo per per­mettere al suo sguardo di penetrare nella sua me­moria sino ad afferrare la spiritualità che della na­tura è il cuore, e farla lavorare all'interno dell'ope­ra. La spiritualità, per Schelling, ha due facce: la "bellezza", che è poi la vita piena dell'essere anche nelle "dissonanze", capace di fondersi con la mate­ria, anzi deve "celebrare le nozze tra lo spirito e la materia", e l'altra: la capacità di cogliere l'attimo, l'istante che prelude alla morte, all'eternità, al mi­stero, attraverso "l'elemento informe", che è preci­samente la spiritualità naturale. Dal porto sicuro del suo studio romano Alberto Sughi si avvicina a questi concetti alternando lun­ghe pause davanti al cavalietto su cui sta l'opera in corso e i libri della sua biblioteca, che, come dice lui stesso, gli permettono di mettere in atto una ginnastica mentale che gli consente di ritrovare l'energia per connettere insieme le immagini che vuole lasciare alla vita. L'artista sente che la crisi del soggetto nel nostro tempo (l'era del nucleare, la società dello spettacolo) è soprattutto una crisi dell'opinione comune", un'incertezza costante, un profondo "spleen", che nasce dal fatto di ricono­scersi "ancora" come soggetti, e di trovarsi "anco­ra vivi qui ed ora" su questa terra. La prospettiva delle catastrofi nucleari, ambientali, etniche, sani­tarie, così come le abbiamo vissute in questi anni, mette decisamente in discussione l'immagine cul­turale, romantica, dell'indifferenza, o di una "su­periorità" della natura. La natura oggi cessa di es­sere realtà separata, raccordata per via simbolica al nostro stato d'animo, e diventa allegoria oggettiva della perdita, si offre a noi con la lingua delle im pressioni, delle figure, dei sentimenti. Dice l'arti­sta: "Nel ciclo (pittorico) Andare dove un uomo si smarrisce andando fra strani boschi... Ho la paura di perdermi. E allora se vedo crescere troppo le co­se introno a me, mi perdo dentro le cose. In que­sto senso sono allarmato dal timore di smarrire il filo della mia vita, il motivo per cui ho scelto di essere un pittore, il suo significato". Sia che egli dipinga "paesaggi", o "interni con fi­gure", figure ancora allacciate o già allontanate da un'erotismo spento, ne consegue che Sughi vede davanti ai suoi oggetti quasi sempre il problema della "separazione", separazione dallo stato di sicu­rezza, separazione dall'oggetto d'amore, separazio­ne da se stessi, separazione dalla vita. La coscienza, o il presentimento dell'inevitabile essere separati, è all'origine dell'angoscia della solitudine che tor­menta l'uomo, forse più intensamente quanto più egli deve allontanarsi dalla natura, visto che essa è, in effetti, il suo destino e la sua storia. L'individuo ha trovato l'esaltazione della propria unicità, e al tempo stesso ha dovuto fare i conti con la fenome­nologia della separatezza, e quindi con il pericolo continuo dell'intrusione della morte nella vita, non sa più quale valore dare a quella sofferenza -che diventa sovente quel gran carnevale dell'ango­scia in cui siamo tutti precipitati. In quest'epoca di "perdita", di smarrimento, di follia secolarizzata in cui il rapporto con "la luce superiore" si allenta, diceva lo storico Sedlmayr, l'arte perde trasparenza, si fa più opaca, ma l'arte in un'età senza luce, o meglio senza una mistica della luce, diventa ancora più "necessaria", perché essa si rivolge a noi come "visione pura", "assoluta apparizione". Per Sughi il mistero che sta dietro le immagini è in fondo, senza evocare un fantasma arcano, una presa di realtà, ovvero quel linguaggio che si apre verso qualcosa d'altro che è rimasto "fuori" dal­l'inquadratura. In questo gioco di proiezione e di nascondimento, regolato dalla dominante del­l'ombra e della luce, dall'esperienza di "un'estasi quotidiana", che è poi l'esperienza della creazione, sembra sempre emergere qualcosa che si sottrae al­la "macchina del vedere". Nell'ambito di questi problemi si pone per Sughi il problema della figurazione, che non è certo per lui un problema di scelta estetica, bensì una scelta che coinvolge la verità stessa del suo mondo poeti­co. Il fatto che egli sia rimasto fedele alla figura­zione, sta ad indicare che egli solo in essa può ri­conoscere la condizione storica, temporale e spa­ziale dell'uomo. Non è un caso che Sughi metta però le sue immagini in gioco, le esponga agli as­salti di quell'alterna che è nemica del nostro quie­to vivere. L'artista evidentemente non ha mai cre­duto ad una immagine idillica, descrittiva e con­venzionale dei suoi personaggi. Egli sa bene che l'uomo nel presente è al centro di un conflitto, ed è proprio questo nodo stretto che egli vuole espri­mere, servendosi delle stesse contraddizioni che in questo conflitto intervengono apertamente. In tal modo l'immagine si concentra, o si allontana, si fa consistente, o fantomatica, buia, o centrata da una zoomata di luce, a seconda del sentimento che l'i­spira. Mai per una decisione di mero carattere for­male. Uno sguardo ravvicinato nell'excursus arti­stico di Sughi merita anche il "disegno". Egli in un'intervista ha detto: ".... i miei studi, sono sem­pre stati, rispetto a quelli dei miei amici pittori, poveri di senso pittorico, o pittoresco, di cose rac­colte. Io scelgo di biffare tutto. Non vuoi dire che non lasci mai dei segni: può darsi che abbia paura di lasciarne troppi. Infatti nei disegni la figura ap­pare sempre implicata in una situazione prospetti­ca che la consuma e la disintegra, essa appare trat­tenuta sulla soglia del nulla da un'ultimo precario residuo di segno, e il segno non sta ad indicare la figura ma lo stesso infinito, in cui la presenza enigmatica della figura pone un limite inspiegabi­le, essa è l'espressione della condizione esistenziale dell'uomo moderno, alla soglia tra l'Essere e il Nulla. Quando Sughi traccia in punta di penna un viso sulla carta, manovra abilmente il segno nero del­l'inchiostro, affinchè sia la distruttiva, e azzeratrice, luce del bianco a prevalere in modo che il vol­to non diventi un fantasma lontano, un reticolo di segni come trattenuti un attimo prima di scompa­rire, o forse mai realmente apparsi, forse subito ri­cacciati indietro verso un mondo di forme ambi­gue, accese da una profonda solitudine. Talora qualcosa cambia, e arriva l'ombra, l'oscurità che li­bera l'invenzione dall'obbligo della verità, e con l'ombra arriva il ricordo, che è sempre lontano, chiuso in un mondo di angoscia. Ciò che ci colpisce, nell'accumulo emozionale del segno, è un occhio segnato di un nero profondo come un abisso, una bocca serrata o convulsamen­te chiusa. Da tale progressiva smaterializzazione, via via depurata da riferimenti troppo precisi al reale, restano filamenti, indizi leggeri e ariosi di tracciati umani, che disfano ogni probabile sem­bianza. Disegnare volti, fare ritratti di chissà chi, forse di personaggi interiori, o anche di personaggi ante­riori, equivale ad una scavo archeologico, un tri­buto alla NIGREDO, che è il cuore dei colori, e il cuore della metamorfosi e del destino. Una volta c'era un volto perfetto e il tempo l'ha consumato, forse l'ha massacrato, ma un relitto testimoniale continua ad esistere. Quel relitto non può essere che l'altro di noi, che amiamo, ma talora ci ango­scia. Sughi obbliga il suo segno a rispettare due tempi: un primo "ductus" automatico, libero, e un secon­do tempo in cui la traccia veloce della penna ha il compito di mettere ombra su ciò che è nato pri­ma. Un lavorio veloce e implacabile che trova pace so­lo quando la linea tracciata e l'ombra accattivante, vengono annullate dal desiderio di comunicare os­sessivamente l'assurda solitudine dell'esistere. Ogni disegno serve a Sughi per organizzare il sen­so della realtà, impadronendosene sul piano cono­scitivo ed espressivo. Queste figure stanno ferme davanti a una finestra, od a una porta, dentro il mistero delle contraddizioni non conciliate, in cui abita la bellezza del mondo, quasi per segnare bor­di d'ombra sulle traiettorie taglienti dell'ordine e del potere. Queste opere affrontano questi coni d'ombra, e si pongono di faccia a questi problemi. L'uomo, nel suo tortuoso viaggio attraverso il mondo, - e tutto il lavoro di Sughi nasce da un'interrotto viaggio nelle terre dell'origine - , ha sem­pre trovato, ad un certo punto del suo percorso, la soglia dell'ombra, ovvero si è trovato davanti a ciò che chiamiamo mistero. Il racconto di Sughi si spinge dunque verso il rac­conto dell'insormontabilità del tempo, che quindi non viene rappresentato, ma almeno "reso presen­te", proponendo così tratti di un'espressione tem­porale diversa e in cui le cose si intrecciano, spari­scono, ritornano, non più legate ad un tempo sto­rico, ma a un tempo cosmico.

Marisa Vescovo, Narrazione sulla soglia dell'ombra, e' pubblicato in:
Origini. Quadrimestrale di segno e poesia. Immagini di Sughi in copertina e a pag.6-9-10-11-13. Testi di Marisa Vescovo e Davide Lajolo. Edizioni La Scaletta, San Polo di Reggio Emilia, anno XIII n° 37gini, Giugno 1999

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