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Marco Fagioli

Alberto Sughi e la descrizione della realtà tra critica accorata e nichilismo.

Copertina del catalogo della Mostra i Maestri del Segno
  ..................................................................... ............................ Alberto Sughi, Ritratto d'Uomo, 1963, Tecnica Mista

Toccò a due recensori d'eccezione, Giorgio Amendola e Giuseppe Raimondi, pre­sentare nel 1976 un libro sul gruppo di dipinti di Alberto Sughi intitolato La cena, dipinti che rimangono uno degli esiti più alti dell'arte italiana del secondo Novecen­to. Se inizio a svolgere alcune riflessioni sui disegni di Sughi partendo da quel volu­me, la ragione è precisa: la pubblicazione del ciclo pittorico di Sughi fu un evento che segnò la storia della pittura italiana di tendenza realista, e fu insieme il suo punto più alto, rispetto a quanto in quei decenni si era fatto, ma anche quello di arrivo, della fine dell'idea di un rapporto consustanziale tra arte e politica, intesa, la seconda, come etica. Che era stata poi, questa idea di un profondo legarsi dell'espressione artistica all'ideologia, il grande mito - e insieme motore - degli anni dal 1945 al 1970. Si avvertiva dunque, nelle figure di La cena, in quella cameriera che porta via le pellicce, in quella signora che si sfila il soprabito, in quei volti gonfi di uomini che ingurgitano cibo, l'estremo giungere dell'impegno ideologico nell'arte, che era stato l'assillo dei maggiori tra gli artisti italiani. E Raimondi ne coglieva, appunto, il senso di descrizione sociale, definendo la scena del quadro "commedione" in pittura, e chie­dendosi: "siamo forse pervenuti nelle sale, nelle stanze di un paradossale Museo Grévin destinato alla riproduzione delle persone, dei personaggi del nostro tempo di pesante alienazione sociale?" Oggi, dopo un quarto di secolo, questa lettura dell'opera di Sughi, ancorché cari­ca di una sua forza, tutta fecalizzata sul rapporto del pittore con la grande tradizione del Realismo - e Raimondi rimandava a un passo di Gustave Courbet - ci pare una lettura limitativa e all'estremo fuorviante. Il progetto di far divenire la pittura il linguaggio per eccellenza dell'ideologia, partiva da lontano, da quella sorta di tableaux vivants che furono Marat assassinato, Lepelletierde Saint-Fargeau e La morte di Bara di Jacques-Louis David, la trilogia sulla Virtù rivoluzionaria che avrebbe dovuto essere d'esempio visivo ai deputati della Con­venzione durante le sedute dell'assemblea legislativa, mentre pronunciavano i loro discorsi. Era quindi, questa del rapporto tra arte e ideologia, una delle idee fondanti la visione giacobina della borghesia nella sua ascesa rivoluzionaria. Un'idea che, in forme mutate, traverserà tutto il secolo per divenire poi, nel Novecento, invece, pro­pria di quelle correnti intellettuali che appoggiavano - attraverso la letteratura e l'arte - la lotta della classe operaia. Quando negli anni settanta Sughi pose mano ai dipinti di La cena, il secolo per gran parte se ne era andato, e anche il progetto di un'arte che si facesse ideologia critica stava tramontando. In effetti, dopo la lezione dell'Espressionismo e della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività), di pittori come Christian Schad, George Grosz e Otto Dix, che con i loro dipinti hanno mostrato quanto radicale possa divenire una pittura di 'critica sociale', rimaneva poco spazio per gli artisti che volessero usare la pittura come 'un'arma'. Quando Sughi realizzò La cena, anche l'esperienza del Neorealismo si era già completamente esaurita da più di un decennio, ma non era venuta meno - nei più impegnati tra gli artisti italiani - l'urgenza di intendere la pittura come un linguaggio critico nei riguardi della società, così come questa si era andata configurando. E Sughi, con una lucidità esemplare che raramente gli artisti hanno, chiariva nel suo scritto inserito nel volume dopo quelli di Amendola e Raimondi, non solo i motivi profondi della sua ideologia, ma anche le ragioni del suo linguaggio e quindi dello 'stile'. Egli spiegava a noi, attoniti spettatori della sua pittura, che cosa volevano significare queste figure: "Sono presenze solide e certe come delle figure geometriche. Non si guardano, sono insieme e basta. La vita scorre lontana da questa scena popolata di statue (...) Come fa un pittore a dipingere in termini di 'bellezza', subire un fascino estetico verso questo mondo agghiacciato e violento? Come può mettere tanta cura nel di­pingere un volto, un gesto, un vestito quando ha la coscienza che tutto sarà più riuscito quanta maggiore sarà Yestraneità verso ciò che dipinge? È un processo di sdoppiamento che si produce in lui" (il corsivo è mio). Sono parole ed idee, queste, che a rileggerle a più di venti anni di distanza chiariscono il senso della sua pittura successiva: Sughi si faceva carico, in modo esemplare, della fine della pittura realista intesa come 'denuncia'. In quel suo affermare che "La vita scorre lontana" e nel fondare il suo criterio di raffigurazione sul concetto di "estraneità", usciva già allora dall'alveo importante, ma esaurito, del Neorealismo e dialogava alla pari con le gran­di figure - allora violentemente emergenti - di quel "realismo esistenziale" che rag­giungeva nella pittura di Francis Bacon gli accenti più alti. In questa ottica trovano poi una spiegazione precisa anche certe sue affermazioni del rapporto con la pittura del passato e dell'uso di essa all'interno del proprio codice pittorico: "II mio rapporto con la pittura neoclassica, con certe evocazioni di pittura anche più antica (qualche pensiero a certe luci, a certa fisicità dei 'sacramenti' di Poussin, qualche suggestione di un certo Guido Reni) è stata quindi una rilettura storico-sociale per capire meglio di cosa volevo parlare e per trovare i modi più efficaci per farlo." Nelle teste di La cena, Sughi, superando il suo rapporto con il Neorealismo, operò una piena immersione nella modernità, mantenendo tuttavia a fondamento il princi­pio di una "pittura della realtà". Non so trovare immagini più vicine alle teste di La cena, con quelle bocche aperte nel momento di ingerire il cibo e quelle gote gonfie ("Voglio dipingere questo gesto di mangiare come se dipingessi una natura morta", ha scritto allora il pittore), di certe fotografìe: i ritratti realizzati, negli anni quaranta e cinquanta, dal grande fotografo americano Arthur Felling (1899-1968), al secolo conosciuto come Weegee. Qui, più che non nei ritratti della serie Menschen des 20 Jahrhundert di August Sander - che pure Sughi deve aver guardato - ritrovo un procedimento simile di raffigurazione del reale nei suoi aspetti grotteschi e deforma­ti. Parrebbe allora che a Sughi si attagli pienamente quella definizione di pittore realista che Michel Leiris aveva enunciato in un suo scritto su Francis Bacon: "In ciò che dipinge, scolpisce o scrive, colui che si pretende 'realista' non deve forse affermarsi positivamente già qui e ora? Tutto ciò che esiste o è esistito è situato in un certo tempo e in un certo luogo, i nostri per definizione (...) In questo senso, fare attualità non sarà per lui che un corollario del suo desiderio di verità: per essere totalmente veridico, il lavoro deve vertere su cose odierne che non accadono altrove. Ma la necessità di datare e localizzare con precisione non implica che, in modo gior­nalistico, l'opera si capovolga in aneddoto o documento d'epoca; non si tratta di seguire le ultime notizie, né l'ultimo grido" ma di fondare "l'operazione artistica sul presente immediato, il che fornirà al suo prodotto (...) un potere d'urto paragonabile a quello di un fatto singolare che ci riguarda" (da M. Leiris, Francis Bacon oggi, testo per il catalogo della mostra al Grand Palais di Parigi, 1971-72; ristampato in Id., Sul rovescio delle immagini, Milano 1988, pp. 31-32).

Alberto Sughi, In una stanza, 1964
Alberto Sughi, In una stanza, 1964, Inchiostro

È un disegno come In una stanza (1964; cat. n° 32) che riconduce a pieno titolo Sughi in quell'ambito della pittura europea realista di tendenza esistenziale, mai co­stituitosi come gruppo eppure corrente viva nel nostro tempo, sebbene abbia raccol­to solo pochi artisti: una linea decisiva dell'arte moderna, a considerare i suoi punti cardinali - come Francis Bacon o Alberto Giacometti - fondata sul rifiuto di quella tradizione del "bello ideale" che dal Neoclassicismo al Realismo Magico del Nove­cento aveva sempre costituito uno dei principi dell'ideologia borghese dell'arte. Una pittura che aveva trovato i suoi altissimi esiti nei grandi trittici di Bacon con i nudi negli interni, quegli Studies from thè Human Body degli anni sessanta che saranno stati di conforto alla ricerca di Sughi, allora già fuori del Neorealismo ufficiale. Dipinti, questi di Bacon, con i quali Sughi dialogava intensamente, a giudicare anche da un disegno come Senza titolo (cat. n° 25), del 1968, in cui appaiono figure nude nel cubo rettilineo di una stanza.

Alberto Sughi, Senza Titolo, 1968
Alberto Sughi, Senza Titolo, 1968, Inchiostro.

E insieme a Bacon, l'altro interlocutore ideale del dise­gno figurale di Sughi era appunto Giacometti: il Giacometti pittore dei grandi ritratti 'radiografici' degli anni cinquanta-sessanta, come quello di Jean Genet (1955), quelli di Diego o ancora quelli di Matisse, dello stesso periodo, e che trovano piena sintonia con quel Ritratto d'uomo (1963; cat. n° 11 ) presente nella mostra.


Alberto Sughi, Ritratto d'uomo, 1963, Tecnica Mista

Una pittura, que­sta, che implicava il fare i conti con quel "nichilismo esistenziale" fortemente ideolo­gico che dagli scritti di Jean Paul Sartre si estendeva fino a Samuel Beckett: un pen­siero in rotta con il dogmatismo stalinista della sinistra di allora. Si pensi a certi testi di Beckett, specie quelli teatrali e televisivi, come Dis Joe, mirabilmente interpretato da Jean Louis Barrault, con quel ripetersi del monologo: "Voilà l'histoire... Tu l'as eue... Le plus clair... Maintenant imagine... Imagine... Le visage dans les pierres... Les lèvressur une pierre...": una scrittura che pare omologa alle situazioni raffigurate da Sughi, a queste persone senza atti, rivolte silenziosamente alla contemplazione del nulla, alla sospensione della cronaca e alla cancellazione della storia. Di questa vena profondamente nichilista, a mio parere, sulla linea del nichilismo di un Bacon o di un Giacometti, ma critica viva della nostra società violenta e falsa, non si erano accorti, allora, Amendola e Raimondi, in quegli scritti, pure esemplari, di cui parlavo all'inizio: presi com'erano, i due maestri di Etica e d'Arte, a rivendicare il carattere sociale della pittura di Sughi. Eppure l'artista, in quello stesso libro, nel suo testo iniziava avverten­do: "Voglio dipingere un uomo che parla. Che si vedano tutti i denti. Che sia il ritratto di un operatore culturale, informato, soddisfatto di come sa usare le parole. È il rappresentante di una classe che non amo molto. È dentro i consigli di amministra­zione e parla, parla di territorio, di comprensorio, di fruitori, di compartecipazione. Invece è cinico; non crede." Il testo a tutt'oggi decisivo per ricostruire la storia di Sughi pittore rimane ancora, a parer mio, quello di Giuseppe Raimondi nei tre capitoli introduttivi alla monografia apparsa per l'editore De Luca nel 1965; anzi, in un certo senso, il citato scritto su La cena, più breve e successivo, rappresenta un passo indietro rispetto a questo saggio. In esso Raimondi ci ha consegnato gli elementi essenziali della storia dell'artista fino ad allora, riflettendo in primis sui motivi della sua pittura: l'interno dei caffè, "con le passeggere persone - manichini di rito: gli uomini gonfi di noia e di vuoto, appoggia­ti al zinco del bar; le donne, abbigliate di povero o di sinistro capriccio, e in attesa" (G. Raimondi, Alberto Sughi, Roma, De Luca, 1965, p. 8). E dopo i motivi, quasi "numeri di un vivente museo sociale", il modo, e dunque il linguaggio in cui il pittore realizza la sua volontà espressiva. Lo scrittore aveva di fronte lo svolgersi della pittura di Sughi, dagli "interni" della fine degli anni cinquanta, come Al museo, Al cinema, entrambi del 1957, e su via via, Giocatori di flipper, del 1958, e la serie di immagini della Città di notte, 1959, con i bar e le donne in attesa, dipinti per i quali Raimondi andava a trovare referenti in Soutine e De Pisis (a mio parere il secondo in modo de­contestuale). Poi la serie dei Ritratti, dipinta dal 1961 al 1962, questa sì decisiva, che faceva balzare d'un tratto Sughi ai livelli della pittura europea del tempo, e per la quale il riferimento a Bacon rimane d'obbligo. E infine i Nudi femminili e le donne nel bagno (1962-64), e quello stupendo emblema della condizione umana che sono gli studi dell'Uomo sul letto, del 1964. Un motivo, quest'ultimo che costituisce l'epifania di quello de La morte del padre, degli anni ottanta, per il quale esiste un disegno di studio esposto in mostra. Si potrebbe indagare a lungo sulle radici della pittura di Sughi e spigolare nei risvolti biografici della sua storia: dagli esordi - le prime prove dell'artista, giovanissimo, negli anni 1943-44- "con evidenti riferimenti a Rosai e soprattutto a Viani" (cito dalla biografia in calce al volume di Raimondi del 1965 -e ci piace, anzi ci esalta questa origine tutta toscana in un autore nato a Cesena nel 1928); e poi il suo volgersi prima all'Ottocento-si dice "da Toma a Fattori" -poi alla grande pittura del Seicento, "che lo porta (...) a tentativi di recuperare la tecnica e lo stile del caravaggismo"; infine la scoperta della modernità, negli esempi grandissimi di un Degas e un Daumier, e da qui "la cronaca sociale acquista poi un alito esisten­ziale, fecalizzata com'è sugli aspetti del tedio e della malinconia nella vita della cit­tà". Ma faremmo torto all'artista a ricondurne tutta la pittura a questa linea - pur importantissima - di una 'caravaggesca' descrizione del reale, poiché la sua opera registra un'inquietudine moderna, la voce di quel sentimento esistenziale che travol­ge la misura stessa dell'atteggiamento realista e che si ritrova nella fondamentale tendenza dell'arte del Novecento, che è stato appunto l'Espressionismo - senza il quale anche la pittura di Bacon risulterebbe incomprensibile. In effetti Sughi è sempre stato un pittore coltissimo, che ha guardato alla grande pittura del passato non al modo di Guttuso, nel quale sovente essa compare come 'citazione' (si vedano i vari omaggi a Van Gogh e Picasso), ma per afferrarne nelle zone più 'oscure' e quindi profonde, i germi del suo modo di sentire il reale. Un esempio tipico ne è il già ricordato dipinto Al museo, del 1957, ove l'artista raffigura sul fondo della stanza due opere di quel Seicento a lui caro: un ritratto, forse di Velazquez, ed una grande tela di Caravaggio o del Reni. Qui l'allusione è simbolica, ma nei fondi scuri di tante opere, specie dei ritratti, lo spazio caravaggesco, galileiano e non più rinascimentale, diviene un motivo strutturante dell'opera. Sughi non usa dunque la pittura del passato come 'orpello', ma come consustanzialità alle sue pro­prie radici, che sono poi quelle di una pittura di ombra e di luce. In questo senso - e riprendo un'osservazione di Raimondi - i richiami ai vari Soutine e De Pisis, e quello d'obbligo a Bacon, servono solo da 'segnali', poiché la storia di Sughi nasce da molto lontano e affonda le sue radici nella tradizione di quel realismo nostro, che per secoli ha attraversato le pieghe della pittura italiana dopo Caravaggio, spesso oscuramente soffocato dalle sempre dominanti istanze del classicismo dell'Accademia, ma a volte potentemente venuto alla luce, nei grandi pittori di verità, napoletani e lombardi prima, ma poi anche nel nostro Ottocento, con accenti diffusi da Teofilo Patini a Antonio Mancini, e infine nelle correnti segrete del Novecento. Questo è il senso che voglio aggiungere al rilievo di Raimondi secondo il quale "si direbbe che Sughi abbia per iscopo l'osservazione" (Raimondi, 1965, p. 13): una osservazione dunque del reale, ma nelle sue pieghe più profonde. Essa infatti sta alla base di questa grande e decisiva galleria di figure che il pittore magistralmente ha reso fino ad oggi: i soggetti e, meglio, i motivi della sua pittura - gli uomini, le donne, le strade, i bar, ed ancora gli amanti, le coppie di moglie e marito al caffè, i nudi femminili su letti spogli in interni, questa umanità sola e annullata che ricorda allegoricamente le figure della poesia di Thomas Stearn Eliot, in una sorta di 'grande teatro' della società italiana del secondo Novecento, resteranno nella storia della nostra pittura come degli emblemi fondamentali. Sughi coglie dunque il reale nella sua fisicità più profonda, ma nello stesso tempo lo disgrega. Per questo Raimondi e altri dei suoi critici hanno parlato di questi dipinti e dei suoi disegni come di radiografie: perché al pittore non interessa la realtà nella sua apparenza esteriore, nella illusorietà delle sue belle e polite ma ingannevoli su-perfici; egli mira al profondo, all'essenza esistenziale dell'oggetto raffigurato. In que­sto procedimento, il cui carattere ideologico è preminente, egli si trova compagno di strada più giovane di un Bacon o di un Giacometti, e non solo per l'assonanza di certi soggetti. Ed è proprio questo atteggiamento ideologico verso la realtà che lo allonta­na profondamente da quei pittori che furono suoi compagni nella protostoria neorealista, ma che poi non ebbero la forza di seguire altre vie. In questo carattere, di notomizzazione e non di descrizione del reale, risiede la sua profonda originalità rispetto a una tradizione - quella del realismo italiano - in cui raramente, dopo la stagione del caravaggismo e a differenza della grande civiltà figurativa fiamminga, il vero riuscì a rompere i muri del bello ideale. Forse a Sughi questo tipo di lettura della sua opera non potrà convincere, ma i dipinti recano in sé più strade di interpretazione, e quindi anche quando, come nel caso di La cena, egli ci indica dei modelli profondamente classicisti come Poussin e il divino Guido Reni, noi lo perdoniamo.

Marco Fagioli, Firenze, luglio 1999

Il Saggio di Marco Fagioli, "Alberto Sughi e la descrizione della realtà tra critica accorata e nichilismo", e' pubblicato ini:
Presentazione della mostra “I Maestri del Segno” di Alberto Sughi alla Ex Chiesa SS. Annunziata di Cetona e al Parco Acqua Santa di Chianciano. Testi di Tommaso Paloscia, Marco Fagioli e Alberto Sughi. (Comune di Cetona, 1999)


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