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Rossana Bossaglia:

Alberto Sughi, Societa' e persona.

Si è chiusa da pochi giorni, a Milano, la mostra storica del Realismo esistenziale, bilancio orientativo di una fondamentale esperienza dell'arte italiana nel dopoguerra, limitata nell'occasione al decennio 1955/65, vale a dire dal primo definirsi di una linea figurativa che non si identificava con il neorealismo di Guttuso, né con le varie letture naturalistiche di Picasso (e anzi, dal punto di vista dello stile, aveva più addentellati con il Gruppo degli Otto e il primo nostro informalismo) sino all'approdo, nel momento di diffusione in Italia del Pop art, alla specifica "Nuova figurazione". In questa mostra Sughi era presente con il suo celebre La strada; e a riguardare il quadro in quel contesto, confrontandolo con le opere di artisti suppergiù omogenei negli orientamenti e nei programmi, mi è parsa forte ed evidente non solo la sua personale cifra espressiva - da allora a oggi rigorosamente conseguenziale -, ma la sua iconografia, proposta allora con durezza polemica, rivista nel tempo secondo toni più inquieti e intimizzati, ricondotta poi a una spieiata connotazione mondana, con aspetti di denuncia sociale, succhiata infine un'altra volta verso l'indefinitezza di un segreto travaglio intcriore.

A Sughi la critica ha prestato molta attenzione, sin dai suoi esordi; ha nel procedere del tempo spesso centrato con perspicua finezza caratteri e significati del suo percorso - sbagliando soltanto là dove ha cercato di semplificare i problemi -e ha colto il senso delle modificazioni che ne hanno caratterizzato precise stagioni operative. Non dirò dunque grandi cose nuove nel sintetizzare le specificità di queste stagioni; valendosi soprattutto della falsariga che mi ha offerto un'intuizione fondamentale di De Micheli, e cioè che Sughi ha in sostanza meditato e vissuto il rapporto fra l'esistenziale e l'ideologico, il privato e il collettivo; troppo problematico e amaro, aggiungerei, per fare del populismo o della pittura sociale, anche quando i tempi fervidi di speranze trasformavano i pennelli degli artisti in ardenti vessilli; troppo immerso in una cultura di viva riflessione politica, d'altra parte, per rinchiudersi in autoindaginipsicanalitiche: dunque fermo in un riserbo morale che gli impediva di confondere i problemi della collettività moderna con quelli della condizione umana, ma gli impediva anche di negare all'introspezione un accorato rapporto con la realtà pubblica. La mostra di oggi prende le mosse dal momento della prima maturità di Sughi; appunto dalla fine degli anni Cinquanta, quando egli mise a fuoco, nel confronto con i suoi più stretti compagni di cammino - da Cappelli a Vespignani - i suoi specifici temi ispirativi. Via Veneto del 1958, Uomo al cinema del 1960 sono altrettanti punti forti di un repertorio tematico e formale su cui l'artista continuerà a meditare. Sono gli anni della Dolce vita, ricordiamolo, e molto si è detto delle affinità del linguaggio di Sughi con quello cinematografico. I suoi personaggi, per lo più di ceto borghese o con la borghesia implicati - come le varie ragazze di vita - appaiono quali esemplari di una società automatizzata nelle esperienze e senza possibilità di relazioni psicologiche: infatti, non si guardano mai reciprocamente e a poco a poco vanno definendosi in una sorta di simbologia della solitudine esistenziale, dove lo stesso Sughi riconoscerà di aver subito la suggestione di Bacon. Ma la condizione è sempre, contemporaneamente, una condizione sociale: si osservino soprattutto gli uomini, talvolta truci al limite del grottesco (e forse non si è insistito abbastanza, da parte della critica, sugli aspetti quasi caricaturali, alla Maccari, che sono dell amaro espressionismo del Sughi, sul teatrale farsi maschera dei suoi personaggi); sono per lo più calvi - a simboleggiare la perdita del naturale - e sempre incravattati - la cravatta come emblema di costrizione e di potere, cilicio del benessere-; se nudi, sono, appunto, svestiti, come svestita la prostituta. Già queste scene di vita cittadina sono rese con una tavolozza grigia, verdognola, nebbiosamente azzurrina -persino la tecnica suggerisce effetti di cinereo disfacimento; talora la didascalia recita: "olio e ossidi di polvere" -; che si farà più decisamente monocroma, insieme sfatta e staffilata, nella fase successiva; quella, per intenderci, più propriamente baconiana, all'inizio degli anni Sessanta. E mi vien qui naturale di soffermarmi sulle origini di questa specifica maniera di Sughi, rapida, allusiva, a volte con qualche impaziente ma folgorante notazione ambientale, e dominata da timbri grigi. Molta parte della critica, specie per la sua produzione giovanile, ha ricordato certe sue matrici - o simpatie - ottocentesche, non mai rinnegate dall'artista, anche se, a mio vedere, meno significative di quanto si dica e in ogni caso, al punto in cui siamo del discorso, decisamente filtrate attraverso il linguaggio espressionista. Qualcuno, proprio per certi tagli abbreviati, e utilizzo delle saette di luce negli interni, e per le atmosfere stesse dei suoi quadri, ha menzionato Degas. Ma poiché si è anche fatto molte volte riferimento al sapore padano, e ferrarese nella fattispecie, della tavolozza cinerina, perché dunque non ricordare (si guardi la Donna nella stanza del '62/63) il corregionario Boldini? Questa stagione della pittura di Sughi si chiude verso la fine degli anni Sessanta. La poltrona del potere non solo manifesta un rassodarsi e raggelarsi della tecnica, ma un'inclinazione verso simbologie più esplicite, quasi allegorie; un quadro che si potrebbe usare come copertina di un romanzo di Volponi cronologicamente corrispettivo.

Negli anni Settanta avviene nelle tematiche di Sughi quello che ho visto indicare come un ritorno alla natura; cioè uno sguardo gettato non solo sulla città e sulla desolazione spettrale di squallidi appartamenti -che era poi lo squallore interiore ribaltato all'esterno -; ma su alberi, prati, cespugli. Sono gli anni in cui l'artista sviluppa il tema emblematico della Cena, quasi un Bunuel piu' acre e meno surrealista. Il leit motif è sempre quello della classe benestante; la quale giusto negli anni Settanta incominciava a voltare le spalle ai riti cittadini (via Veneto, appunto) e a celebrare i propri riti nei fortilizi delle dimore di vacanza: l'uomo incravattato, nei ben ordinati giardini, continua a essere il prigioniero della propria condizione sociale; la tecnica si è fatta fredda e lucidamente descrittiva, con tratti iperrealistici: toccando l'apice nel gelido e spieiato racconto della Cena. La descrizione dei remoti castelletti, solitari e misteriosi, che allungano sul mare scalinate manifestamente inaccessibili (Villa sull'Adriatico,), è resa con una pasta pittorica più dolce: ma entriamo addirittura nel simbolismo fin de siede, tra Boecklin e Khnopff.

Ora Sughi è tornato, nell'ultimo decennio, a un segno sfatto e rapido, con delicatezze da pastello e sibilanti sfrecciate argentine. Ed è tornato, in questa sorta di corsi e ricorsi - che, come si è visto, non sono mai propriamente tali - a una riflessione interiorizzata, al motivo della solitudine della persona, della meditazione soggettiva. In realtà, i personaggi sono più o meno gli stessi, sono i borghesi benestanti nelle loro agiate dimore; ma non sono rappresentati in termini di denuncia, i connotati di arida durezza si sono ammorbiditi. Perché non è più un racconto di separazioni sociali, di caste al potere, di aridità morale; bensì una sommessa riflessione sul senso di un percorso di vita di cui si può incominciare a tracciare un bilancio.

Il tema conduttore è quello della sera. Il sole è ancora all'orizzonte quando lo osserva, attraverso la finestra, la donna seduta in poltrona (Guardare fuori) e negliocchi duri, sul bel volto sfingetico, è un trasalire di allarme. Gli altri personaggi sono ormai arresi allo spegnersi del giorno: camminano adagio, un poco smarriti - e il cane leva il muso interrogando (Uomo nel paesaggio); siedono, osservano. Il pittore ha posato i pennelli, si volta a considerare l'ultima opera sul cavalietto, si assesta inerte di fronte al paesaggio esterno. Ora non è più tempo di denunce e di tormenti; forse non è più neppur tempo di passioni; l' interrogativo esistenziale non è rivolto alla prassi operativa, l'enigma di fronte a noi non è la realtà dell'altro, ma è l'enigma in assoluto. Si è parlato, per Sughi, di malinconia; prima era desolazione; ora il discorso si è fatto affettuoso; un estremo pudore ne accorda i toni. Ma è sempre discorso di solitudine. Sughi non me ne vorrà se, pressa poco sua coetanea, mi immedesimo con arresa dolcezza nel racconto della sua sera. Per tutto l'arco della sua attività, egli ha continuato a darci una pittura nutrita di tensioni morali e di riflessioni intellettuali; e insieme non mai didascalica, senza un minimo cedimento alla retorica, né alcuna caduta nella banalità. Una pittura fra le più colte e le più semplici che ci si offrano nel panorama attuale dell'arte.

Rossana Bossaglia, Milano 1991

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