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Alberico Sala

Della Riflessione.

Alberto Sughi, Tramonto sul mare

Alberto Sughi, Tramonto sul mare

Sono appena uscito da un fragoroso temporale d'estate; la cappa del cielo, la volta d'un altoforno, s'è sgretolata verso il mare, con sussulti e rimbombi; il cielo fiammeggia. Nella pianura, il tempo è meno scosso. Nella mente, il paesaggio, di colpo, è occupato da figure provenienti da due versanti, da due spiagge opposte e comunicanti, memoria e riflessione.

È un movimento, proprio di onde, ora tranquille, ora concitate, trasparenti o torbide, che coinvolge anche me, che guardo il grande quadro di Alberto Sughi: «Tramonto sul mare», dipinto in questo stesso anno. Il sole caletta l'orizzonte irrequieto di nuvole, insanguina le acque del mare, che è Pamarissimo, il mare di casa per Alberto Sughi, sottratto egualmente alla musica intimista del suo concittadino Marino, ed al montaggio memoriale di Fellini. Nonostante l'atmosfera diaccia, suscitata dai bianchi del terrazzino sul quale s'è isolato, l'uomo è a torso nudo, appoggiato ad un'esile balaustrata; potrebbe essere la ringhiera di un'aula di tribunale, dietro la quale l'imputato s'espone (o si cela) alle domande. Non diverso dal rosso del cielo in cui si tormenta lo sguardo dell'uomo, ho sempre pensato quello della fiamma che brucia nelle ombre fonde e allarmanti della chiesa in cui si perde il procuratore Kappa; e simile è l'aria allarmata, l'avviso di un processo, inquisizione, autodafé. Quel tramonto potrebbe ben essere un rogo sul quale l'uomo brucia i suoi giorni e le sue notti, la somma dei suoi atti, i conti della vita (sua e degli altri, incontrati su quella od altre rive), le carte, i doni, le colpe e i meriti, l'inventario in nero e in rosso.

Siamo dentro, nel profondo del nuovo ciclo che segna la lunga, coerente, strenua, coraggiosa ricerca dell'artista romagnolo, dedicato, appunto, alla riflessione, che è stato controverso dell'animo e dell'intelletto, annichilente per alcuni, esaltante per altri. Aggallano molti pensieri, intelligenti, o soltanto brillanti. La rilettura mnemonica dei cicli precedenti di Sughi privilegia, al termine dell'inventario, una massima, lapidaria, di Alain: pensare, riflettere è dire no. Ogni ciclo è una affermazione e una negazione. E la stessa struttura del ciclo afferma una condizione riflessiva; non un quadro isolato, illuminazione o scatto, ma più quadri, una sequenza, una struttura, i capitoli di una narrazione, che cresce dalla realtà e si afferma come metafora ed apologo. Sergio Zavoli, costante ed illuminante interlocutore del suo conterraneo Sughi, ha precisato: «Sette per volta, volendo proprio contarli». (E non può sfuggire la riflessione sui valori astrologici, cabalistici, mitici e religiosi della scelta). Basta ripensare gli altri cicli, La cena, quello suggerito dalla immaginazione e dalla memoria della famiglia, il Teatro d'Italia, per raccogliere segni di riflessione, i semi di un processo che ora è divenuto flagrante, e che ha assunto, essenzializzandoli, tutti gli elementi fertili delle precedenti ricerche, prove e proposte, in un continuum morale ed estetico che ha rari riscontri nell'avventura dell'arte contemporanea.

Tutto il lavoro di questi decenni tendeva a questa riunificazione, in un linguaggio ch'è divenuto più spoglio diretto ed intenso, bruciando le filtrazioni, solennizzando, senza insidie o tentazioni celebranti, il vigore espressivo, ch'è ancor più netto ed incisivo. Rimanda (ed è

una suggestione alla quale il mio lombardismo non sa, né vuole sottrarsi) alla suprema, esaltante lezione caravaggesca, agli spazi saettati da lampi di luce (proprio come nel temporale appena fracassatosi nella sera), però contratti, serrati. La luce, non si sa se naturale o artificiale, fiotta come solidificata dalla finestra, e rammenta le raggiere delle pale d'altare. L'uomo abbandonato a se stesso (da se stesso), è un poverocristo, un martire laico, il profilo scarnito proprio di certa pittura panegirista dei secoli appestati. Quanti antenati e parenti si possono rinvenire, di quest'uomo solo, nella pittura di Alberto Sughi? Sono creature tormentate dalla incapacità di comunicare, scavate dalla malinconia, dalla tetraggine, con addosso, come un mantello, la tristezza della provinciale inaugurazione alla vita, del mondo contadino raggrumato nella chioma dei cipressi, più spesso abbattuti sulla terra, vittime del vento (ma non è certo, l'uomo può anche essersene appena andato con le sue accette, le sue colpe di violenza e di morte); o sulla spiaggia, portati da uragani, abbandonati dalle piene e dalle burrasche. Le chiome sono spoglie di nidi; gli uccelli li hanno abbandonati con la loro festa. I loro tronchi avrebbero potuto sostenere vele, e prendere il mare, dove, invece, giaciono umiliati.

Forse, s'ergevano, un tempo, presso il muro della villa (1970) immerso in nuvole verdi e buie, sotto il cielo corruscato. Contro quel muro spiccano le parole memorabili di Giorgio Amendola, nella introduzione della monografia per La cena: «... La ricchezza è stata conquistata calpestando amicizie, solidarietà, dignità, in una disperata negazione degli affetti. E la negazione offre un muro impenetrabile, un muro che soltanto apparentemente sembra non avere incrinature, che invano cerca di respingere con violenza ogni debolezza. Perché anche la violenza richiede sentimenti, affetti ed odi, passioni. L'unico sentimento che ancora resiste è la paura. Sui volti deformi si scorge una vita che sembra già spenta nella raggelata solitudine di questa galleria di statue. Oggi la paura è la più forte. Le parole non bastano, ci vorrebbero i fatti. Ma dove ascoltare le parole di un uomo, di chi? Anzi dove imparare ad ascoltare, a comunicare? Come si fa?».

Proprio per tentare, organizzare una risposta, ecco il tempo, il ciclo all'insegna della riflessione, già annunciato anche da un'altra osservazione, di uno dei critici più sottili di Sughi, il bolognese Giuseppe Raimondi (citato dallo stesso artista), amico della poesia e dell'arte. Raimondi aveva notato che l'artista parlava di un suo quadro «come se non ne fosse l'autore, ma solo lo spettatore». Sughi aveva risposto che era pronto a «spersonalizzar­si», per dipingere il quadro, mettendo in moto un'azione non soltanto sua. Ed aggiungeva: «Spersonalizzarmi voleva dire qualcosa di più: forse era un esame di coscienza che mi volevo fare; capire meglio chi ero e con chi ero; non rimanere chiuso dentro delle convenzioni per interpretare la mia vita, e cercavo, in una operazione artistica, la porta di sicurezza...». In un'altra occasione aveva dichiarato: «L'immagine che la tela restituisce all'artista è il risultato di un'indagine introspettiva».

Ecco, la costante della riflessione, ora più trasparente e dominante. Le creature sono lì, che cercano la chiave della porta, o della vecchia credenza, di cui Rimbaud ha fulminato i segreti, riserva di memorie e di fantasie. L'autore, da sempre, si sporgeva alle ragioni interiori, s'interrogava, si rifletteva nel fantasma del quadro; ed era già altro, pronto a dire, a ripetere il no di Alain, contro le convenzioni e le falsità, gli abbagli e le compiacenze, le complicità e i tradimenti, le rese senza condizioni, le scuse di non aver capito in tempo, le

alleanze ambigue. «Bisogna guardare, bisogna capire, stare attenti... Questa matassa aggrovigliata deve avere un bandolo, anche se molti punti saranno spezzati e aggrovigliati». Bisogna smetterla di giocare a mosca cieca. In Giardino all'italiana, che è del 1971, l'uomo è in ginocchio nell'erba, cerca di camminare come un animale. Alza la testa, guarda il cielo azzurro attraverso gli occhiali, con una espressione ebete, un sorriso imbonitore. Nel verde profondo galleggiano altre figure, di uomini seduti (in carrozzelle), di donne in slip, che cavalcano altri uomini. Volti e corpi sono deformati, secondo una filigrana intcriore di indagine e di rivelazione.

Nell'ultimo ciclo, la deformazione è come riassorbita, a testimoniare una ricomposizione, proprio attraverso il processo della riflessione. Dalla critica dei movimenti, sentimenti, risentimenti collettivi, sono uscite queste immagini individuali, nel loro appartarsi. E quando sono due, nel balcone sul mare, o nel buio di un cinema, l'esito è una solitudine anche più vasta.

Ci siamo mossi dal mare, fra bagliori temporaleschi. Il mare della giovinezza di Sughi; del personaggio più misterioso ed affascinante di Eugenio Montale, Dora Markus. Potrebbe essere la signora seduta in poltrona, che guarda fuori, attraverso i riflessi d'una finestra; o la ragazza che si regge la testa bionda di capelli sul bancone del bar, tra oggetti più consueti del topo bianco d'avorio, il lirico amuleto.

Sughi può aver rivolto alla ragazza l'interrogazione del poeta: «Non so come stremata tu resisti — in questo lago — d'indifferenza ch'è il tuo cuore...». La salva l'occhio dell'artista; che riflette dentro di sé, si estroflette nelle sue creature, tela e specchio. Così esistono.

Alberico Sala

inAlberto Sughi, Il Gioco dell'Apparenza (1986)

 

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