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Sergio Zavoli,

Intervista a Sughi e a Bodini.

Sughi e Bodini, anni 70 A. Sughi, Ritratto di Sergio Zavoli, 2003

 


INTERVISTA A SUGHI E A BODINI

Sergio Zavoli

Sto assistendo, invitato da entrambi, a un pranzo con Floriano Bodini e Alberto Sughi; dico assistendo perché, non volendo perdere lo spetta colo, ho quasi dimenticato di prendervi parte. Anziché un commensale, insomma, sono un osserva tore, o giù di lì.

Con Alberto c'è una lunga amicizia, che ha vissuto tante cose, a cominciare da quando Rober to Longhi gli scrisse: "(...) anche solo il fatto di sa pere che nel concerto realistico italiano esiste la pittura di Sughi, mi rallegra e mi conforta molto (...)". Bodini, invece, ha la cortesia di richiamarmi a un lontano incontro di San Marino, in occasione di una mostra che non ho certo dimenticato, l'unico in tanti anni. Sono contento di esser qui con loro.

Riconosco di avere una simpatia naturale per chi sa conservare rapporti civili, siano amichevoli o di semplice comunanza, difendendo quel grande bene che è la relazione, cioè il rapporto fiducioso, la leale e reciproca rispondenza a ciò che ci aspet tiamo l'uno dall'altro. E mi piace vedere i due ami ci abbandonati alla "gioia tranquilla del ricordo", direbbe Epicuro.

All'apparenza non hanno molto in comune: per quanto Alberto è longilineo, di un'eleganza naturale e consapevole, facondo, accattivante e sotti le, tanto Floriano è possente, ha un'antica grazia inconsapevole, scabro, anche se non estraneo a qualche seduzione. Ho sotto gli occhi, in più, il loro aggiungere spontaneità e concretezza al mistero intellettuale e interiore; il quale è l'ambito vero - né filosofico né ideologico, intendo dire, ma semplicemente umano - di questa rara e persino rassi curante amicizia.

Le ragioni saranno le più diverse e comples se, mi dico, ma è subito chiara la solidarietà che nasce dalle prove condivise, dalle battaglie vinte o perdute, rimaste le sole possibili per non conse gnarsi via via ai conformismi e alle convenienze, ai disincanti e alle pigrizie.

Hanno una conversazione nient'affatto pe dante, ma ariosa, fitta di estri, soprassalti, risate. E quasi mai di giornata: molto di ciò che si dicono ha avuto inizio chissà quando, e dove. Amano riflet tere su stati d'animo, approfondire piccoli o grandi eventi, episodi conclusi, irrisolti, lasciati morire. Li uniscono le prove attraversate, le tracce rimaste e scomparse, le turbolenze e le schiarite; ogni tanto indugiano sui pericoli corsi, ma si capisce che par lano, ormai, di temporali lontani, come quelli d'e state, che anche nel ricordo stentano a prendere forma e sostano alti e distanti.

Ciò che più impegna i due amici è il giudizio estetico, culturale, civile, non di natura personale e, men che meno, personalistica; non inclinano, più di quanto si prenda la quotidianità, al monda no e all'andante. Per non cadere, suppongo, in quello che Socrate, nientemeno, considerava il modo più sicuro di perdere, insieme con il tempo, il filo del discorso!

E' molto piacevole sentirli riandare, senza cipigli o sofferenze, a dispute che pure furono vive e laceranti. Come quando, per esempio, ricordano quell'infrenabile scapigliatura che fu il loro ritrarsi dalla stretta di un'arte ideologica, quella assunta, non a caso, dal "socialismo reale", per intraprende re un viaggio arduo e coraggioso (seppure senza doversi concedere nulla che non fosse la loro indi pendenza) nel realismo esistenziale: la classifica zione, quasi una categoria, inventata da Marco Valsecchi. E' quello, mi par di capire, il cippo di un percorso che ha coinvolto la loro avventura umana all'interno di una storia comune, per poi doversi misurare nel punto più consapevole, esigente e doloroso dell'identità. La quale ha già, nel suo ordito, il filo di quel fantastico assioma felliniano secondo cui "l'immaginazione è il modo più alto di pensa re". D'altronde, Picasso aveva detto, proprio lui, che "la realtà è ciò che vede la maggioranza!", su scitando l'indicibile dubbio se egli volesse screditare l'una o l'altra. Oppure entrambe.

Mi domando, ascoltando Bodini e Sughi, che cosa resterebbe un giorno delle parole che gli artisti si scambiano da secoli - presi dalla loro "divota tenzone", come la chiama il Vasari, ossia dall'amo roso conflitto sul tema della bellezza primigenea,

creaturale - in un tempo che dovesse esasperare, ancor più di oggi, un'idea dell'arte al servizio di quanto esige il consumo dell'effimero, cioè dell'e sornativo, del decorativo, del suggestivo e per si no - dentro questo arrancare nel vuoto - della più miserabile delle funzioni, quella, in fin dei conti, del riempitivo! Sarà la fine dell'arte, mi di co, ma si affaccia subito il problema di come datarne l'inizio e di prevederne il ritorno, la restitu zione, la rimonta.

Ciò, per fortuna, esula dal vero dilemma del momento, che è quello di scegliere tra il branzino e la bistecca. Il pranzo, che si consuma nel più di screto dei ristorante romani, in Borgo Vittorio, procede un po' a rilento per la cortesia dei com mensali - tra cui due galleristi di rango, i Montasio padre e figlio - decisi ad aspettare che, preso qual che appunto, mi dedichi anche al cibo.

Bodini, più giovane di una manciata d'anni, mostra un evidente, compiaciuto stupore per la capacità sistematoria, fatta di molte nuances, con cui Sughi mette subito a fuoco e conclude un ricordo; lui, scultore, forse l'avrebbe sbozzato e lasciato lì, per poi aggiungervi o togliervi. Magari con mag gior impeto o, al caso, più lentamente.

Bisogna vedere come due grandi artisti cono scono la misura minima di se stessi, fidandosene fino a farla prevalere più spesso di quanto non rie scano i passaggi più impervi del dialogo. C'è un'intesa, tra loro, che traspare dal modo in cui accettano anche amarezze e solitudini, che i due amici rispettano, lasciando pazienti pause l'uno al silenzio o al soliloquio dell'altro.

Guardo le loro mani, lunghe, affilate, come di cera quelle di Sughi; più corte, nervose, temprate quelle di Bodini. Osservandole mentre compiono i veloci tragitti nell'aria e sulla tavola mi sorprendo a cercare la loro misteriosa sapienza - sia sulla tela, sia sulla forma - figurandomi il lavorio delle inner vature, l'ispessirsi delle vene, il moto carezzevole o concitato che accompagna pause e riprese, gesti si curi e stentati, scelte risolute e scoramenti, tutto con quelle dita che adesso armeggiano tra coltelli e forchette con il loro daffare dopotutto simile al mio. Che si sono misurate con un quadro come "La sera del pittore", col suo bilancio attonito, totale,

come un destino accettato per sempre, o la statua di Paolo VI, che ha addosso, si direbbe, il dolore di un Dio malato. Non è necessario essere crepuscolari - mi dico - per dipingere, o uomini di fede per scolpire una solitudine. La razionalità sa percepire l'estro, e intendersi con l'animo, sapendosene di fendere, cioè governandoli.

So che tra poco farò delle domande, le stesse a entrambi per non uscire da questa simbiosi che lega e divide, conferma e smentisce due bellissime dissonanze armoniche uscite da un unico, solidale spartito.

Anzi, mi provo subito a chiedere.

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Alberto Sughi, Ritratto di Sergio Zavoli, Olio su tela, 120x100 cm, 2003,

Portrait of Sergio Zavoli, Oil on canvas

 

 

Che cosa vi ha più legato? Le consonanze o i dissensi?

Sughi: Ci siamo conosciuti nei primi anni 60. La comune scelta di campo (era in atto la contrap posizione astratto-figurativa) ci portava a percorrere strade dove era facile incontrarsi. Cosa ci ha più legato? La stima reciproca, lasciamelo dire, non ba sta per fare nascere un'amicizia; per diventare ami ci ci vogliono affinità misteriose o caratteri molto complementari. Forse è questo che abbiamo trova to Floriano e io.

Bodini: Credo le consonanze! E' una sicurezza vedere l'artista disegnare e liberamente concludere un corpo, una testa, una mano, portare a termi ne in libertà una forma compiuta. Ciò vale, alla pa ri, per un pittore e uno scultore. Io, per tanti versi, sono negli occhi di Alberto e lui nei miei.

 

L'arte sarà a lungo un "bene stabile" - come direbbe un economista - o avrà il destino di cambiare natura?

Sughi: Se continuiamo a interrogarci sulla na tura dell'arte, nonostante la vastità di riflessioni storiche e filosofiche che le sono state dedicate, vuoi dire che la percezione che ne abbiamo rimane ancora approssimativa. Ma forse il segreto della sua durata, chiamiamola così, risiede proprio nel l'impossibilità di ingabbiarla in una categoria logi ca. Ciò che cambia è invece la funzione che la società assegna all'arte. Il pericolo è che oggi, attraverso un uso spregiudicato e al di fuori della sua storia, si possa perdere la capacità di riconoscerla.

Bodini: Penso a giovani colleghi che vivono la maggior parte del loro tempo "d'artista" a inseguire inaugurazioni, eventi, persone, e via di questo passo, dimenticando la vita "d'artista" fatta di studio, di dubbi, di necessario isolamento, di concentra zione, di ricerca.

A questo proposito leggevo un'intervista a Freud, in occasione della personale dedicatagli dalla Tate Gallery di Londra, nella quale dichiarava di aver ricevuto il regalo più gradito in occasione del compi mento degli ottant'anni: poter visitare i musei lon dinesi sette giorni su sette, 24 ore su 24! Inutile di re che Freud gode di questo privilegio per visitarli nelle ore di più assoluta tranquillità.

 

Alberto Sughi e Floriano Bodini con Dario Micacchi (TopPage)

 

Quale significato assegnate, ai fini della vo stra identità, agli esegeti e ai sistematori del vo stro lavoro?

Sughi: Se cedessi al pessimismo finirei per non credere che oggi sia possibile riordinare o si stemare granché, in un campo così arato e messo sotto sopra da apparire irriconoscibile. Tuttavia, se qualcuno in questo disordine s'imbattesse nel mio lavoro gli chiederei, semplicemente, di confrontar si nel modo più libero e disincantato con quello che ho fatto e che faccio. L'arte, in sé, non da spiegazioni, può solo aspettar si giudizi argomentati.

Bodini: Vorrei citare una massima che recita così: "Anche sul trono più alto del mondo si è seduti sul proprio sedere". Dico questo perché quel li che seguono non sono giudizi, ma pensieri pri vati, personali. Da sempre, per predisposizione naturale, tengo in gran conto il rigore e la serietà del lavoro; in questo senso ho imparato ad apprezzare e stimare il lavoro di "sistematori" come De Micheli, Kaisserlian, Haftman, Krimmel, de Grada, e più recentemente di Selingeer, Pontig- gia, Pirovano: perché ho visto e vedo in loro il vi rus della passione, che a volte, certo, può essere fuorviante, ma quasi sempre ti chiarisce a te stes so. Questa riflessione non vuole essere virtuosa, é semplicemente la mia verità, o se vuoi, il miopensiero. In ogni caso, per il bene dell'arte, mi au guro dei "sistematori" contagiati dalla curiosità, dal rigore, e mai dalla faziosità.

 

Che cosa rappresentò la scelta della vostra particolare "scrittura" nell'ambito del realismo, cioè il rifiuto della visione zdanoviana dell'arte?

Sughi: Non riesco a inserire quella zdanovia na, che passa sotto il nome di "realismo socialista", fra le teorie dell'arte-, mi sembra giusto considerarla come un teoria politica per controllare gli artisti e aggregarli a una funzione di sostegno propagandi stico alle ragioni del Potere; a ben vedere è una teo ria che non presenta novità sostanziali rispetto a quanto è accaduto in altri momenti della storia. Se persiste questo giudizio negativo, il motivo va ri cercato nella povertà di ciò che ha lasciato. Ciò può aiutarci a riconoscere, al di là delle sue perversioni, la debolezza culturale che quel potere ha rappre sentato: l'arte testimonia anche contro se stessa. Queste considerazioni trovavano qualche ascolto, più spesso un rifiuto, all'interno degli istituti cul turali del P.C. I. in anni in cui la correlazione con il P.C.U.S., sto adoperando un eufemismo di allora, aveva un carattere di fraternità. Comunque, que sto sfiora appena la vera storia della pittura italia na, anche se ipocrisie e astuzie hanno fatto di tut to per accreditarlo.

In realtà il movimento realista prese il nome di "neoralismo" volendo sottolineare una analogia con il cinema affermatosi nel dopoguerra (Rosselli- ni, De Sica, Visconti, Germi, eccetera). Direi che, nonostante qualche forzatura, la correlazione era abbastanza corretta e che nemmeno chi dichiarava esplicitamente la sua appartenenza partitica, pen so a Renato Guttuso, è stato prigioniero di troppi impacci ideologici.

Noi non abbiamo fatto parte della scuola "neorea lista" per ragioni che assomigliano a quello che è avvenuto nel cinema (Fellini, Antonioni): il "neo realismo" si esaurisce, cambiano il modo e lo sguardo per conoscere noi stessi e la realtà in cui siamo immersi. In più il nostro lavoro trova assonanze con espe rienze analoghe francesi, inglesi e americane.

Bodini: II nostro essere giovani, giovanissimi, non ci ha permesso di considerare lo "zdanovismo". Ne siamo stati e rimasti lontani un po' per ignoran za, un po' per istinto, e in minima parte per scelta. La nostra "scrittura", e per nostra intendo la mia, quella di Ferroni e di Guerreschi, di Romagnoni e di Ceretti, di Banchieri e di Vaglieri, credo nascesse dalla volontà di contrapporsi al "realismo sociale" di Guttuso che allora, erano gli anni '50, rappresen tava il movimento egemone della scena artistica italiana. C'era in noi la voglia di focalizzare l'attenzione su una realtà più intimistica, su temi più per sonali, più legati alla nostra esistenza, svincolati da ideologie politiche. Cercavamo di fare in modo che questi rapporti non restassero generici, ma acqui sissero maggiore coscienza per poterli interpretare, pittoricamente e plasticamente, con più chiarezza. Credo che in tal modo aggiungessimo cose alle cose in maniera organica, per narrarle, momento per momento, senza soluzione di continuità. La nostra generazione - più o meno siamo tutti del '30 - ha avuto la possibilità di confrontarsi con le generazioni europee del nostro tempo, per esem pio il gruppo de "la Ruche", in Francia, senza timo ri reverenziali; apportando, anzi, una ventata di novità, risultata a posteriori molto evidente nelle nostre partecipazioni alle mostre di Kassel, a Darmstadt, a Londra, e in molte altre ancora. Non volevamo essere dei testimoni della realtà, ma, co me dire?, qualcosa di propulsivo, ognuno con il proprio linguaggio, ognuno con la propria perso nalità, e con affinità che potrei spiegare usando queste parole di Banchieri: "Era il primo giorno che frequentavo Brera. Per due anni, infatti, avevo fat to l'Accademia a Firenze. Mi indicarono l'aula del professor Carpi. Entrai, dentro c'erano tutti, Ro magnoni, Guerreschi, Ceretti e Vaglieri, tranne Bo dini. Mi parve di conoscerli da sempre. Lessi sui loro volti, istintivamente, che erano le persone giuste, quelle che avevo sempre cercato senza sa pere dove le avrei potute trovare..." Non avevamo, dunque, riferimenti ideologici, an che se alcuni di noi erano interessati alle ideologie, come Ceretti e Vaglieri, ma la volontà di agire. Per ché è proprio nel fare, e nel misurarsi, che tutto tende a spiegare, a chiarire.


Non fu una scelta, a sua volta, in qualche modo ideologica?

Sughi: No, non credo. Ognuno aveva i propri riferimenti, ma il nostro lavoro ha avuto un carattere prevalentemente laico.

Bodini: No, assolutamente non voleva essere una controrivoluzione. Ti basti pensare che tutti noi dobbiamo le prime mostre e i primi veri catalo ghi ai "preti", cosi li chiamavamo, cioè al Centro San Fedele.L'unico che non vi prese mai parte fu Vaglieri per ché, diceva, "io da quelli non espongo". Non a caso era, tra noi, il più politicizzato. Avevamo solo la necessità di comunicare, perché sentivamo di po ter esprimere qualcosa di diverso e, a parer nostro, di qualche valore. Sentivamo l'urgenza di far conoscere il nostro linguaggio, che allora, dal 54' al 57', aveva una poetica comune molto evidente. Basti pensare che noi stessi faticavamo a distinguere le opere dell'uno da quelle dell'altro. Una volta vidi un quadro che scambiai per un Vaglieri, mentre era di Ceretti. Va poi ricordato che il gruppo del "realismo esistenziale" ebbe un forte riferimento anche in Sughi e Vespignani, i due romani nel cui lavoro ci riconoscevamo.

 

La vostra solidarietà coincide con i punti alti del vostro talento, o vive al di là di esso?

Sughi: Se non fossi più nella condizione di ri conoscere e ammirare il talento di Floriano mi ri marrebbe un'amicizia, diciamo pure, decapitata.

Bodini: La nostra solidarietà è in stretta rela zione, anzitutto, con il nostro rapporto di amicizia. Poi, una critica costruttiva, non un elogio tanto per compiacere, ma un'autentica stima, fanno il resto. Dunque un'amicizia solidale, da ogni punto di vista.

 

Il reciproco sguardo sul vostro lavoro è ri masto lo stesso o è cambiato?

Sughi: Lo stesso interesse si manifesta in ma niera diversa. L'emozione, per esempio, lascia più spazio alla riflessione critica. La scultura di Bodini ha ormai un posto familiare nel mio immaginario, e la guardo con la stessa attenzione critica che de dico alla mia pittura.

Bodini: Nel corso del tempo è rimasto inalte rato; cioè vivace, attento, con uno sguardo carico di un interesse e di un rispetto reciproco.

 

Che cosa è venuto meno o si è aggiunto nell'idea che avevate, rispettivamente, del vo stro lavoro?

Sughi: Mi sembra, nonostante il gran cammi nare, di trovarmi ancora dalle stesse parti.

Bodini: Credo che l'idea del mio lavoro abbia seguito il corso naturale della mia vita. Gli inizi (anni '50-'60), con l'amicizia e la stima attestatami da grandi mecenati e grandi musei, che certo oggi vengono meno, gli uni e gli altri. La maturità (anni 70-'80) ha coinciso con importanti "commesse" pubbliche, cui devo una dimensione nuova del mio fare scultura.

 

L'incontro di voi persone è sufficiente a colmare il vostro rapporto sul piano artistico? O rimangono -trattandosi di uno scultore e di un pittore - zone inesplorate dall'uno e dall'altro, spazi non del tutto accessibili, persino diverse modalità di pensiero e di approccio in rapporto al rispettivo lavoro?

Sughi: Lo scultore e il pittore hanno in comune una base molto importante, rappresentata dal disegno; è vero, poi, che pittura e scultura hanno peculiarità linguistiche diverse. Questo non significa che ci siano zone inaccessibili all'u no o all'altro. Se io sono in grado di capire e ammirare una poesia, un romanzo, una musica, co me posso immaginare di non comprendere una forma d'arte che, per via del disegno, sento impa rentata con la mia stessa ? Certo, dovrò operare una specie di traduzione, di interpretazione; ma questo avviene anche quando, passato del tempo, guardo il mio lavoro.

Bodini: I rapporti sul piano artistico credo non siano colmabili, perché l'arte va oltre noi stes si. Zone inesplorate e inaccessibili resteranno sempre tra un pittore e uno scultore, perché i modi di "fare arte" sono diversi in partenza. Uno sculto re non può essere unicamente un solista: spesso, e in particolare per le grandi opere, dev'essere un compositore e prestare attenzione a tutti gli stru menti. Al contrario, un pittore deve essere un soli sta, se possibile anche un po' egoista! Mi auguro, inoltre, che vi siano differenti "modalità di pensiero", mi preoccuperebbe il contrario. L'opera di en trambi credo trovi affinità nelle cifre espressive e poetiche.

 

Siete stati mai tentati l'uno dal "mestiere" dell'altro?

Sughi: No... non ci ho mai pensato. Bastava il mio, cui mancava sempre qualcosa. Anche se poi, più che aggiungere, credo di aver sottratto! La poesia stessa, ma credo l'arte in genere, ha questa esigenza: di cercare il proprio nucleo e di stringer si ad esso.

Bodini: Lo sono stato all'inizio, avendo mos so i primi passi nel mondo dell'arte come "pittore", ma la distrazione è durata poco, anzi pochissimo.

La partitura, con il suo concertato a quattro mani, mi sembra ragionevolmente conclusa e dun que si può chiudere, per dir cosi la tastiera. Molte cose vi rimarranno inconcluse, alla rinfusa, come nei cassetti. O a tavola. Chi ha più da scusarsene sono certamente io. Mi rincuora pensare che die tro le parole ne rimangono altre che si aggiungono da sé, per strade diverse; sapendo bene, o abbastanza, che se l'uomo è ciò che pensa, a maggior ragione è ciò che fa. Ecco, io ne ho davanti una prova. E il lettore ci metta, cortesemente, del suo.

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Copertina del catalogo della mostra di Bodini e Sughi alla Galleria Montrasioarte,

Milano, Novembre 2003



Sergio Zavoli, "Intervista a Sughi e Bodini", Catalogo della Mostra di Sughi e Bodini alla Galleria Montrasio Arte Milano, Novembre 2003

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