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Milan Kundera/Alberto Sughi

 

IL SORRISO DI KARENIN

…Tereza continua ad accarezzare la testa del cane Karenin che riposa tranquillamente sul suo grembo. Dentro di sé fa più o meno questo ragionamento: Non c'è alcun merito a comportarsi bene verso il prossimo! Te­reza è costretta a essere corretta nei confronti degli altri contadini perché altrimenti non potrebbe vivere nel villaggio. E persino nei confronti di Tomàs deve comportarsi con amore perché ha bisogno di Tomàs. Non potremo mai stabilire con certezza fino a che punto i nostri rapporti con gli altri sono il risultato dei nostri sentimenti, del nostro amore, del nostro non-amore, della nostra bontà o del nostro rancore e fino a che punto sono condizionati dal rapporto di forze tra gli individui.

La vera bontà dell'uomo si può manifestare in tut­ta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rap­presenta alcuna forza. Il vero esame morale dell'uma­nità, l'esame fondamentale (posto così in profondità da sfuggire al nostro sguardo) è il suo rapporto con coloro che sono alla sua mercé : gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell'uomo, tanto fonda­mentale che da esso derivano tutti gli altri.

Una delle giovenche si avvicinò a Tereza, si fermò e la fissò a lungo con i grandi occhi bruni. Tereza la conosceva. La chiamava Marketa. Le sarebbe piaciuto dare un nome a tutte le sue giovenche, ma non po­teva. Erano troppe. Una volta, tanto tempo prima, di sicuro più di quarantanni addietro, tutte le muc­che del villaggio avevano un nome. (E se il nome è il segno dell'anima, posso dire che esse ne avevano una a dispetto di Descartes). Ma poi il villaggio era stato trasformato in una grossa fabbrica collettiva e le muc­che vivevano tutta la loro vita nei due metri quadrati della stalla. Da allora non hanno più un nome e si so­no trasformate in « machinae animatae ». Il mondo ha dato ragione a Descartes.

Ho sempre davanti agli occhi Tereza seduta sul ceppo che accarezza la testa di Karenin e pensa al fal­limento dell'umanità. E nello stesso istante mi appare davanti agli occhi un'altra immagine: Nietzsche esce dal suo albergo a Torino. Vede davanti a sé un cavallo e un cocchiere che lo colpisce con la frusta. Nietzsche si avvicina al cavallo e, sotto gli occhi del cocchiere, gli abbraccia il collo e scoppia in pianto.

Ciò avveniva nel 1889 e a quel tempo anche Nietz­sche era già lontano dagli uomini. In altri termini, proprio allora era esplosa la sua malattia mentale. Ma appunto per questo mi sembra che il suo gesto ab­bia un significato profondo. Nietzsche era andato a chiedere perdono al cavallo per Descartes. La sua paz­zia (e quindi la sua separazione dall'umanità) inizia nell'istante in cui piange sul cavallo.

È questo il Nietzsche che amo, così come amo Tereza sulle cui ginocchia riposa la testa di un cane mor­talmente malato. Li vedo l'uno accanto all'altra: en­trambi si allontanano dalla strada sulla quale l'uma­nità, «signora e padrona della natura», prosegue la sua marcia in avanti.

M.Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere. pp. 293-95(Adelphi, 1985)

 

 

 

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