albertosughi.com

di Dario Micacchi

Alberto Sughi, Immaginazione e Memoria della Famiglia

In un saggio su Alberto Sughi, per una monografia del 1965, Giuseppe Raimondi ci ha dato una chiave per entrare nel suo mondo pittorico che è tra i più fitti e straordinari di personaggi umani di tutta l'arte contemporanea italiana. Aveva disposto, per una visione immediata e contemporanea, le foto dei dipinti sul tavolo di lavoro ma le aveva interrogate a lungo, invano, ed era andato a cena. Poi tornò nello studio ed ecco improvvisa la rivelazione: " ... Gli occhi mi andarono al tavolo, e alla distesa delle fotografie che lo ricoprivano quasi interamente. Fu così che mi parve di avere, all'improvviso, e portata da un'occasione materiale, la visione stranamente giusta, la spiegazione non aspettata del lavoro, veramente complesso e ordinato, del mio amico pittore. Anziché ad una privata esibizione di opere, nate in occasioni diverse, dal medesimo autore, quindi nei mutati momenti della sua ispirazione figurativa. Credetti di trovarmi davanti ad una unica serie di immagini, che, legate strettamente fra di loro nel movente dell'idea e del sentimento, componessero come la rappresentazione scenica di un solo e vasto racconto. (La sottolineatura è mia). E quasi si tenessero a gomito fra di loro, come fotogrammi successivi e ininterrotti di un film: un film, condotto sul filo della commozione, della passione, della tristezza e dell'ironia, che raffigurava i momenti, le ore, i minuti della nostra esistenza quotidiana. L'esistenza di uomini e donne in questo tempo, in cui siamo dentro fino alla gola. Al pittore fu concesso di restarne fuori, disperatamente, con la testa, per usare lo strumento dei suoi occhi... ".
Un solo e vasto racconto fissato da uno sguardo allucinato e angosciato di un pittore che c'è dentro fino alla gola. Un racconto, dai caratteri molto italiani dico io, che poteva essere fatto, a partire dal 1957, non con una pittura a tesi ideologica ma con un coinvolgimento esistenziale.
La stessa aderenza del linguaggio al racconto, via via più tragico e disperato con il crescere delle illusioni di massa nella società consumistica degli anni sessanta, è frutto di una rivisitazione incandescente ed esistenziale di certa pittura e della frequentazione di certi pittori: da Lega a Degas attraverso gli amici Muccini e Vespignani; da Toma a Daumier; e quando avviene il tormentato incontro con gli uomini e gli interni di Francis Bacon, Alberto Sughi aggiunge qualcosa di molto suo alla macellaria e all'autodistruzione dell'inglese: la concretezza spaventosa delle illusioni e delle situazioni fino a dipingere quella solitudine, italiana ed europea, degli uomini in una stanza circondati da un'infinità di oggetti inutili. Siamo alla fine degli anni sessanta e Alberto Sughi vede lucidamente nella realtà italiana. A questo punto, per lui, il racconto vasto, di cui diceva Giuseppe Raimondi, non è più possibile.Ma perché aveva tanto insistito nel racconto? Lui, così allucinato e malinconico di sguardo. Perché quel che vedeva e amava tanto da dipingere, pur dolente e disperato, entrava nel grande flusso della speranza e della lotta socialista che ha retto l'Italia fino ad oggi e Alberto Sughi dipingeva la singola figura come parte, magari inconsapevole, di una totalità, che già aveva sentito nascente nelle immagini di Degas e di Daumier. Con le figure degli uomini soli nelle stanze stracolme, Alberto Sughi rompe con un certo racconto e con un certo linguaggio del racconto figurato. Ecco, così, apparire interminati spazi del paesaggio italiano svariato su tutti i verdi possibili e con cipressi che svettano in un'aria senza vento, con nuvole basse e cupe.
E' uno strano vuoto, una misteriosa assenza dopo tanta pittura della realtà e della vita urbana: come un riprender fiato, come un rifarsi l'occhio affondando lo sguardo nella virgiliana "natura viridans": forse, un'elegia tenerissima della luce e del verde del Mediterraneo; ma non sono paesaggi puri: anche qui l'assenza è enigmatica, un po' chirichiana, c'è un sottilissimo alito di morte. Io credo, però, che questo ciclo dei paesaggi abbia pulito lo sguardo di quel tanto di manierismo esistenziale che, soprattutto dopo l'incontro con Bacon, incanalava la sua visione.
Fatto sta che prende a lavorare, prima timidamente e poi sempre più speditamente, al grande ciclo della "Cena" mostrato con una presentazione di Giorgio Amendola di una lucidità tagliente, di una prefigurazione febbrile e ammonitrice che è stata tipica di tutte le cose dette da Amendola negli anni ultimi avanti la morte. Nel ciclo della "Cena", Alberto Sughi convoca per una "abbuffata'" funebre le figure di una classicità borghese in dissoluzione.
Lo fa con una pittura di segno netto e scandito, di colori chiari e perlacci, di eleganza lugubre, ma senza espressionismo della situazione o dei gesti o della pittura; anzi lo spazioambiente ha una luminosità uniforme che non lascia ombre e isola le figure come in un acquario. Ciascuna figura è molto individuata, bloccata nel gesto di portare alla bocca il cibo come se fosse stata inglobata dalla lava e dai lapilli a Pompei.
Il tono morale della scena è gelido di un neoclassico pompeiano giuocato e feroce, ma senza urla o proteste di pittura: tutto scivola fatalmente in una voragine con i cappotti, con le pellicce, con i gioielli, con i vestiti, con le pettinature e le parrucche. Soltanto le bocche tradiscono una voracità bestiale, una sorta di cavità rossa aperta sul grigio perlaceo dell'ambiente. Lo sguardo del pittore è assai fermo, senza un tremito ed è sguardo allo stesso tempo molto dentro e molto lontano. La classicità razionale e ironica della forma non ha più nulla in comune con l'espressionismo esistenziale del precedente racconto italiano. Con "La cena" Alberto Sughi arriva a un suo originale realismo metafisico: metafisico in quanto portatore di un nuovo stupore chirichiano per le cose ordinarie: i vecchi pietrificati ma con le vene della testa ancora pulsanti della spiaggia di Ebdomeros sono diventati questi convitati che Alberto Sughi pietrifica nella cena. La scena si svuota e daccapo lo spazio si fa interessante non per i segni manifesti ma per i segni nuovi che potrebbero entrare nello spazio del quadro.
I segni nuovi, alcuni segni nuovi, sono presto venuti con le imprevedibili figure del ciclo sulla famiglia, figure che Alberto Sughi si è portate dentro per una vita di pittore e che positivamente si manifestano ed entrano nello spazio del quadro a tenerlo e ad occuparlo saldamente come memoria e prefigurazione di un'umanità altra e che si presenta con caratteri contadini. Prima di guardare queste grandi figure realiste da primordio, bisogna ripercorrere rapidamente il percorso della figurazione in Sughi.
Per capirne a fondo la novità e la qualità pittorica e morale tutta attuale. Per poter dipingere così, per poter incastrare con tanta sicurezza di vita e di forma le figure in uno spazio puro di tutta luce, bisogna aver fatto piazza pulita di molte abitudini, di molti consolidati luoghi comuni vuoi d'avanguardia vuoi tradizionali. Il coraggio della pittura non serve a nulla senza la coscienza più spietata e autocritica.
E oggi, che tanta pittura torna e in parte cerca di azzerare ogni discorso o problema - vedi il comportamento tra astuto e naif dei pittori della cosiddetta transavanguardia - non bisogna stancarsi di vangare la terra per vedere dove poggiano le fondamenta della pittura sia essa di realtà o dell'immaginario.
Nel percorso di Alberto Sughi dalla metà degli anni cinquanta, ad un arricchimento continuo degli strumenti pittorici, alla fluidità costante della naturalezza d'immaginazione, alla sensibilità sensuale per la vita, non si sono mai accompagnate certezza e appagamento della vita stessa e, tantomeno, del mestiere antico-moderno del pittore nella società attuale. A fondamento di una verità della ricerca e dei risultati pittorici c'è sempre stata, oltre alla sensibilità schietta sostenuta da un bel mestiere, la coscienza amara e drammatica che la pittura avrebbe potuto essere altra rispetto al mondo popolare.
Quel senso pittorico così intenso ed energico di felicità impressionista spenta, di Degas abbuiato, che Alberto Sughi si è sempre portato nell'occhio acuto e rapace e nella mano veloce e sicura, derivava da una situazione reale e drammatica che vede il pittore, in tutto o in parte, separato dal mondo popolare che pure fu o è il suo farsi esperto nel concreto quotidiano del mondo di vita borghese.
Così Alberto Sughi, attraverso tale esperienza, è arrivato a dare tipicità sociale e lirica all'autobiografia e a quello sguardo esistenziale che partecipa ma dissente, si affissa ostilmente contrario, crudele e violento quanto più frequenta le stanze e la tavola dei borghesi. Non è, certo, cosa del tutto nuova in pittura e nella tradizione moderna occidentale: basti pensare agli uomini "rosa" e "blu" che ritornano come germogli picassiani fioriti in clima italiano, nelle recenti immagini fantasticate da Sughi sulla famiglia. Quel che era nuovo era la qualità popolana della malinconia nello sguardo ostile e che dissente.
Ci sono, negli anni, quattro momenti chiave nella ricerca di Alberto Sughi. Un primo momento aurorale e "ingenuo" (dopo la iniziale esperienza neorealista vicina al gusto urbano di Muccini e Vespignani) che Sughi tende a identificare il senso umano e poetico della vita contemporanea con la resistenza che la provincia popolare italiana, quella emiliana e romagnola in certi momenti, fa alla società dei consumi e alla dimensione snaturante della città capitalista con i suoi caratteri mostruosamente italiani.
Un secondo momento più duro e consapevole in cui i tipi umani figurati, piccolo-borghesi e borghesi, si identificano con lo spazio disumano dell'esperienza programmata dal potere per una crescita che presto si rivelerà una sprofondamento: le immagini, allora sono caratterizzate dal panico, dalla tetraggine e da una specie di vitalità negativa degli uomini. Un terzo momento, ancora, che, nella stanchezza dei sensi e dell'avventura umana, mostra uomini indifferenti e abituati alla violenza. Siamo nel fitto degli anni sessanta.
Ricordo un quadro: una gelida immagine tra tante altre fredde immagini di donne e uomini perduti in stanze colme di oggetti, dove è figurato ambiguamente, in un "clima" tra Godard e Bacon, un uomo che imbocca il portone di casa senza vedere una giovane donna legata e straziata che gli sbarra il passo. A questo tipo di immagine faceva da specchio un altro tipo di immagine rappresentante ridenti conciliaboli di personaggi - un po' politici, un po' militari, un po' preti - che si distribuiscono il potere e hanno tutta l'aria di meditare
l'assassinio e il colpo di stato.
Quando si arriva al quarto momento, quello del ciclo dei paesaggi romagnoli con i cipressi, si comprende perché Alberto Sughi porti, anche nella natura, uno sguardo così luttuoso e come questo verde temporalesco degli esterni sia l'equivalente psichico del grigio degli interni. Ed è proprio con questi paesaggi tornati a una "profondità abitata" bóckliniana e chirichiana di isole e luoghi morti che si esaurisce la possibilità di una ricerca pittorica fondata sulla malinconia dell'autobiografia e sulla resistenza al modo di vita piccolo borghese e borghese.
Quando tutto è pittoricamente consumato nasce la rottura clamorosa con il ciclo non più espressionista ma "classico" della "Cena" e c'è un radicale mutamento di sguardo. insomma, per lunghi anni Alberto Sughi è stato come attratto, in senso tra goyesco e dostojevskiano, dalla vitalità del negativo: furore, dolore, lamenti, contestazione fino al gelo della "Cena" che potrebbe anche avvenire in un bunker antiatomico.
Per lunghi anni, un mondo che si portava dentro è stato emarginato anche se dalle sue ragioni di vita e di sentimento muovevano le contestazioni più radicali e nascevano la immagini pittoriche di un dissenso, di un grande no. Ora, si direbbe all'improvviso, se non avessi chiarito la lenta e dolorosa maturazione, quel mondo è venuto in piena luce a occupare sensi e pensieri del pittore e tutto lo spazio grande dell'immagine. Interni chiarissimi e tutti in luce di una casa contadina che chi sa dove sta. Porte chiuse e porte socchiuse che possono sprofondare nella memoria o aprirsi alla prefigurazione.
Una donna che guarda il televisore. Una donna che lava i piedi al vecchio padre contadino. Una incinta seduta nella gran luce. Una donna che spidocchia un ragazzo in ginocchio tra le sue gambe. Una donna anziana che si affaccia su un uscio come su una ferita del mondo. Un uomo e una donna che si amano teneramente col ragazzo che dorme in primo piano. Una bimba trasognata che stupisce guardandosi il sesso allo specchio. Un'altra bimba impaurita che segue sul divano la lite dei genitori con l'uomo che va via stringendo il pugno. La bimba che si volge a noi mentre la famiglia sta attorno al letto di morte di un uomo vestito in nero di cui vediamo il busto, le gambe e le mani conserte.
Queste le immagini, con alcune varianti in dipinti e disegni, della stupefacente apertura di Alberto Sughi con immagini primordiali della vita con radici contadine e di una forma classica sfrondata da qualsiasi tipo di gusto classicheggiante. Nessun ritorno a uno stile che sia sostitutivo di vita e di realtà. S'è detto che questi dipinti sulla famiglia stanno tra memoria e prefigurazione di un'umanità altra. Alberto Sughi insegue qui un doppio sogno di esattezza sempre più esigente e d'invenzione sempre più libera.
E combatte una singolare lotta tra un segno che dà grande evidenza alla figura e una luce che fa lo spazio e la "tattilità" della figura. Artista ma anche artigiano (torna Degas che guarda a Picasso) è attaccato alla qualità materiale del tratto, del colore di una sobrietà e di una probità assolute, altrettanto che alla qualità evocativa e misteriosa dell'insieme molto costruito senza dare a vedere la fatica della costruzione con tutto quel che ha comportato di scorie e di selezione massiccia (c'è un disegno molto affollato di figure per la morte in famiglia che dimostra quanto l'immagine finale si sia pulita e fatta pura fino alle quattro figure del capolavoro e a quel celeste angelico della bambina che volta le spalle alla morte con un gesto naturale e splendido degno di un Munch pittore che alla malattia e alla morte ha dedicato i quadri suoi più belli e terrificanti).
Il disegno di questi grandi quadri è elettissimo: sembra a volte correre alla brava come un tracciato su una vasta parete ed è, invece, un segno che avanza e si ferma soltanto seguendo impulsi profondi, interni, che vanno in direzione della prefigurazione o della memoria. Si dovrà guardare a queste immagini non come al compianto per un tipo di umanità che è finito o non ritrovabile per noi ma come a un sogno laico, a una visione orgogliosa di un mondo ristrutturato umanamente contro la violenza e il dissolvimento.
L'effetto di luce svela a Sughi il valore del minimo movimento del corpo e, soprattutto dei sentimenti profondi. Pochissimi oggetti e tutti che rimandano a una vita fatta dall'essere e non dal possedere: le figure sono giganti nello spazio quasi privo di oggetti: quelli che appaiono sono dell'uso più antico e quotidiano, quasi di sopravvivenza. Sughi riesce a comunicarci il suo stupore.
Mi è tornata in mente una conversazione di Degas annotata, nel 1891-1893, da Daniel Halévy. Diceva Degas: " ... Mi piacerebbe... entrare in queste famiglie di operai del Marais. Si entra in case che sembrano ignobili - con delle porte strette così... E si trovano degli appartamenti assai chiari, minuziosamente puliti... Le porte sono aperte sui pianerottoli; tutti sono gai, tutti lavorano; e questa gente non ha minimamente il servilismo del mercante in bottega... E' una società stupenda... ". Ecco, la porta stretta, la strettoia quasi soffocante e, poi, la visione, l'apertura su una grandezza umana insospettata, su una chiarità sublime.
Alberto Sughi, in tutta la serie di dipinti sulla famiglia si serve continuamente del gesto di socchiudere l'uscio: lo usa per porre nella posizione esatta chi guarda il quadro e come elemento strutturale-psichico interno all'immagine per guidare sempre oltre verso una profondità interna o verso una spazialità infinita e misteriosa. La spazialità di questi interni di Sughi somiglia alla spazialità che altri artisti usano per definire dei luoghi aperti con un grande orizzonte. Dai tempi di Louis Le Nain e di Ceruti ne abbiamo viste di famiglie popolane e no fino a Daumier, Degas, Munch, Steinlen, Picasso, la Kollwitz, la Grundig, Manzù e anche Guttuso dell'autobiografia e Vespignani.
Ma non c'è, in Sughi, nessun ritorno alla storia dell'arte, nessuna alta cleptomania fosse pure nei confronti di un quadro che oggi torna sconvolgente come " i mangiatori di patate" di Vincent Van Gogh. Le ha scovate in sé, nei "sotterranei" della propria giovinezza queste figure popolane Alberto Sughi. Forse, si saranno anche rafforzate con tante immagini tragiche di popolani di ogni dove sbirciate alla televisione, stampate sui giornali.
Ma come una verifica di quello che uno si è sempre ritrovato dentro e che soltanto la personale e insostituibile esperienza della vita e dell'arte ha portato a riscoprire così autentiche, così intatte, così essenziali da poter guidare idee, sentimenti e mano per farne immagini poetiche e morali assieme. lo non so dove Alberto Sughi abbia pescato il gesto antico della lavanda dei piedi, non nella pittura cristiana, non nella Romagna di Fellini: è un gesto antico e nuovissimo, fiero e tenero fino al pianto, portatore di una grandezza che forse non è perduta.
Io non so dove Sughi abbia pescato quel celeste di cielo per la veste della bimba bionda nella stanza della morte; o quell'arancio di girasoli per la veste della bimba che si scopre donna allo specchio. In tutto il ciclo adamantino di infinite variazioni sul grigio sono i due timbri squillani di colore: come due vele fantastiche portate dalla fanciullezza. Questi due colori sono il segno di una grande maestria poetica maturata da Alberto Sughi capace ora di orchestrare un intiero ciclo di dipinti sulla dominante variamente armonizzata dalla luce del grigio con un fulgore quieto e solenne e con gesti quotidiani restituiti a vera grandezza. In anni terribili, di fuoco, la poetessa sovietica Marina Cvetaeva aveva il coraggio e la forza di scrivere: " ... Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare / come il sole, come il pendolo, come il calendario. / ... D'entrare senza annunciarmi, come un raggio e come uno sguardo. / Di vivere così come scrivo: in modo esemplare e succinto".
Dalle immagini che ha dipinto c'è da augurare a Alberto Sughi che possa vivere così come dipinge. Certo è che questo suo nuovo e innovatone modo semplice ed esemplare di fissare in immagini, per lui e per noi, alcune figure e cose nel flusso della vita attuale fattosi così precipitoso che sembra non potersi più arginare, è una preziosa indicazione che, affidata alla pittura, coinvolge il pensare e l'agire sociale e politico.
Alberto Sughi ci dice, con molta serenità ma anche con molta forza, che c'è una positività popolare che affonda in antiche memorie e " buca " il futuro fino a prefigurare ben costruita e bene in luce una vita altra dove c'è morte ma non c'è violenza e dove ci sono gesti pacifici di donne e sguardi di fanciulli, in celeste cielo e in arancio girasole, che vanno ben oltre la morte. Grazie pittore per questa tua immaginazione serena e rasserenante, per il tuo poetico farti sasso saldo e polìto contro la corrente.
Oggi, il percorso di un artista sta sospeso su spaventose voragini della società economica e politica prima che culturale. Ci si potrebbe chiedere dove attinga Alberto Sughi questa trasparenza dell'immaginazione, questo suo dipingere "semplice ed esemplare", questo suo passare una porta ed entrare "senza annunciarsi, come un raggio e come uno sguardo". Se c'è un enigma pittorico, perché la fucina dell'immaginazione resta abbastanza misteriosa nel suo produrre diamanti bruciando montagne di scorie della realtà sociale ed esistenziale, non c'è nulla di misterioso né di miracoloso nella posizione attuale di Alberto Sughi: una posizione che è l'approdo di tutto un percorso. Può stupire che egli nazionalizzi memoria e immaginazione mentre tanti altri scatenano false liberazioni irrazionali, grovigli di segni e
flussi materici di colore.
Ma certe qualità di "veggente", quelle che poi a distanza di decenni sentiremo essere le qualità tipiche di un tempo, si generano nei momenti più drammatici: la storia dell'arte moderna, specialmente in Germania e in URSS, ci offre molti e grandi esempi di sguardo e di coscienza "iperrealisti".
In fondo, è il problema di come avrà fatto Degas, quasi cieco, a dipingere le sue donne nel bagno e le sue stiratrici stanche che sono le figure che hanno aperto la porta del secolo alle figure rosa e blu di Pablo Picasso. Ed è un problema che si ripropone per Munch come per Cézanne: uno sguardo che rivede daccapo e nel profondo ed è capace di sintesi chiarificatrice proprio laddove altri non vedono che il caos e l'irrazionale. Con assoluta certezza ed energia di esecuzione Sughi dice e ammonisce che ci sono ancora queste sue straordinarie figure popolane: vederle o non vederle dipende da noi.
Ma cosa mettono in chiara evidenza, fino allo stupore come di cosa perduta e ritrovata, la certezza e l'energia di esecuzione dei dipinti di Alberto Sughi? In quella tenerissima elegia della Romagna che è "Amarcord", Federico Fellini ha evocato con lieve grazia di risa e di voci, nei grandi ambienti contadini, la fanciullezza come una mitica età dell'oro della gioia. In questo ciclo sulla famiglia di Alberto Sughi c'è la Romagna, ci sono i fanciulli, ci sono le donne.
Ma il contenuto è assai diverso. Nel nostro presente così tragico e pieno di panico, Alberto Sughi rimette dei grandi gesti semplici e chiari che sono essenzialmente espressione di una solidarietà tra gli esseri umani: una solidarietà antica ma che è riproposta per il presente e come fondamento di un futuro dei rapporti umani, della società.
La famiglia è vista senza piccinerie: è il luogo primo, il gruppo necessario dove tale solidarietà prima si manifesta come forza aggregante e costruttrice tra la fanciullina che si scopre il sesso e la morte del padre. lo non so, tanta è la novità di contenuto e di forma, se questi dipinti saranno capiti subito, anche perché la vita che ci hanno costretto a vivere ci ha strappato da tutto questo in nome di tante falsità che ora ci avvelenano, ci dividono, seminano odio e tempesta.
Per capirli questi dipinti bisogna partire dalla calma che viene dal profondo del segno che dà forma alle figure umane e dalla incredibile luce meridiana che entra negli interni a dar valore e qualità alle cose che contano: per prima cosa ci renderemo conto di tutto il superfluo che ci circonda, poi prenderemo coscienza del necessario della vita e della pittura.


Dario Micacchi,

ed. La Gradiva (1981)

© 1997-2005 questa pagina e' esclusiva proprieta' di albertosughi.com
La copia e distribuzione, anche parziale, richiede autorizzazione scritta di albertosughi.com
Please ask albertosughi.com's permission before reproducing this page.


albertosughi.com
testi/texts/onLine