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Antonio Marotta :

Il Teatro d'Italia

 

Il peso del quotidiano, le anime nude tra pareti tessute da ragni, i cento anni di solitudine di una famiglia che subisce i guasti umani di una civiltà indu­striale e che per certi aspetti ricorda, con cromatismi e atmosfere diverse, sto­rie diGarciaMarquez, hanno buttato fuori di porta di via del Circo Massimo, a Roma, ove da tempo lavora Alberto Sughi, le figurazioni, gli istrionismi ora astratti, ora spaziali e geometrici di Corrado Cagli, le contadine di Scanno e le esperienze divisioniste di Camillo Innocenti.

Le cronache della famiglia, della fanciulla che scopre il sesso agli albori e de­gli adulti che lo vivono come ricchezza in una civiltà sbilanciata che si pone talvolta di traverso, finiscono col diventare memoria. E Sughi sottolinea que­sto momento, questo trapasso, con quella "Morte del padre" ove persino la materia adoperata - annota un amico del pittore - è scarna e disperante. Il quotidiano diventa quindi archeologia e i sentimenti ombre di un umano obsoleto. La stessa realtà presenta, nella lettura del pittore, decomposizioni graduali e attonite fissità. Si dimenticano, allora, le immagini distorte e sfigu­rate, i personaggi intravisti tra veli di gelatinosa sostanza organica che hanno dominato la pittura di Sughi con urli, sogghigni o inebediti silenzi. Opere che ricordano Bacon, "quadri calpestati da esseri che sono transitati su di essi.... lasciando una scia di umana presenza e tracce mnemoniche di eventi passa­ti"; si dimenticano anche le rielaborazioni di immagini nei bar, nelle antica­mere, nei foyers.

 

Col "Teatro d'Italia" siamo al di là dell'esistenziale; siamo nel dopo, in una realtà che non è più tale, in uno spazio scandito dalla Totentanz di Liszt ove Sughi scava il suo imbuto infernale; non sotto Gerusalemme, ma sotto Ro­ma; non sotto la selva oscura ma sotto i ruderi del Palatino. Un imbuto pieno di torba, di resti di un'era priva di potere calorifico e tappato alla base da un magistrato spettrale. Un passaggio obbligato ove colano i resti di un protezionismo o di un consumismo effimero. Gironi e bolge affollati da simoniaci disposti a gruppi, come nel museo delle cere. Un cromatismo solenne sorregge il telerò ma più solenne ci sembra l'attesa del grido, dell'esplosione, dello squillo di tromba. Il grido dell'uomo dei mi­racoli; lo squillo che riempie, al compimento dei secoli, gli scafandri di pelle. Sughi ha ricordi di provincia come altri giunti a Roma ma cresciuti in Roma-gna dopo gli anni della distruzione. Il Papa infilato nel suo imbuto infernale ha una tiara bianca sul volto di sfinge scavato da millenni di storia. A destra di chi guarda, sui banchi del Parlamento, galleggia una noia tattile come è tattile il seno scoperto della donna che si appoggia, sul lato opposto, all'orlo del te­lerò.

 

Amore e noia. Potrebbero essere i semi dell'attesa resurrezione, il modo per uscire dal macabro labirinto sinfonico di LiszL

Non è la prima volta che ricorrono, nella tecnica di Sughi, i tratti a carboncino e i colpi di pollice per rendere più granuloso e piacevole l'impasto. Nel "Teatro d'Italia" il pittore ha avvertito questa esigenza in maniera chiara e corposa forse per rendere più efficace il livore dei volti, delle labbra esangui, degli sguardi persi nei neri profondi che si aprono come abissi tra una figura e l'altra, tra un gruppo e l'altro, tra un momento storico e l'altro. Siamo lontani dalla rassegnazione dell'Amore coniugale. Nel quadro del 1981 l'attesa, infatti, è priva di brividi, di sgomento; è costruita in una situa­zione legittima e affiora calda e sudata nel bagliore luminoso. Nel telerò compiuto quest'anno vi è tutta l'angoscia di un fotogramma fer­mato per un attimo per identificare fatti e situazioni e poi rimasto sullo scher­mo e nell'occhio fino all'esasperazione per un improvviso blocco del proiettore.

Situazioni reali, insomma, che per un sommarsi di circostanze scivolano sul piano dell'irreale dal quale nemmeno il pittore ha più il potere di distaccarle. Ed è così che luci e colori si avvizziscono fino a presentare livori e gonfiori putrescenti dinanzi al volto secco dei ruderi di Roma, come cuoio. Col "Teatro d'Italia" Sughi non risolve tutti gli interrogativi sull'umano; po­ne, anzi, al posto ove sedeva la donna nella "Morte del padre", una folla di personaggi incredibili nell'attesa "del dopo" o addirittura "nel dopo". Ma ri­solve, in maniera chiara, gli equilibri di spazi e di presenze ed anche quella voglia di testimoniare un atteggiamento laico nonostante le "schegge di ideo­logia" presenti nella sua formazione culturale.

Alberto Sughi, del resto, non ha mai preteso di rispondere con l'immagina­zione e le memorie della famiglia agli interrogativi sull'umano; ha solo "cer­cato di condurre una indagine accanita sulla condizione dell'uomo; sul suo malessere esistenziale che prende evidenza all'interno di situazioni apparen­temente rassicuranti".

Parlando con Sergio Zavoli egli dice testualmente: "quando nel 1967 dipinsi il ritratto di un uomo trincerato dietro file di televisori, frigoriferi, termosifo­ni, telefoni, volevo solo rappresentare il pericolo che l'uomo avrebbe corso se non avesse capito in tempo che non doveva mitizzare un benessere che lo stringeva in un pericoloso assedio".

Sono trascorsi alcuni anni e col "Teatro d'Italia" Sughi conferma come il se­gnale di pericolo non sia stato ascoltato, come il protezionismo e il consumi­smo facciano ancora smarrire le memorie di antiche dignità. L'attesa dram­matica, l'urlante silenzio, l'assenza di una luce polarizzante, il livore diffuso e continuo dentro e fuori dei personaggi, le facce poppose dei protetti cosi vici­ne a certe maschere felliniane, non potranno non sorprendere chi è abituato al Sughi dei bar, della casa contadina, delle sale cinematografiche o al Sughi che ricalca con volumetrie pittoriche diverse, le solitudini allucinanti di Mario Sironi. Lo vediamo nelle "Strisce pedonali", neir 'Uomo seduto alla tavola calda", nelle "Passeggiate notturne", nelle "Donne in chiesa" piantate come cariatidi ai lati delle morte figure di marmo.

Nel grande telero del "Teatro" sono individuabili, inoltre, canoni e spunti dell'estetica settecentesca del sublime: il sublime dell'eresia per un pittore esistenziale. Ma Sughi dice che nessuno dovrebbe essere indicato come ere­tico. "Il problema della diversità, della libertà di essere diversi è un diritto di tutti gli uomini" (intervista con Sergio Zavoli).

Canoni dell'estetica settecentesca del sublime sono anche presenti nel "Tra­monto romano", l'opera che si propone, per più aspetti, come preludio del 'Teatro d'Italia", come denunzia di una caduta di valori e, al tempo stesso, come esaltazione di una natura che può diventare feconda nonostante i ba­gliori del crepuscolo.

La danza macabra comincia proprio col "Tramonto romano". Sono le battute che precedono la parafrasi del "giorno dell'ira" così chiara, così netta nel telerò d'Italia. Movimenti lenti di una sequenza gregoriana. L'esplosione, il rosso truculento della toga e l'agghiacciante demonismo del magistrato verrano dopo.

Le due composizioni, il "Tramonto" e il "Teatro", sembrano dominate da un fervore e da una coerenza stilistica e morale che hanno del religioso. Sono lontani i contadini rassegnati che scandivano la sequenza della "Famiglia" con le stesse facce e gli stessi panni della gente che affolla il "Vagone di III classe" di Honorè Daumier; sono lontani anche gli uomini dei bar, i tavoli tondi, i bicchieri, gli atteggiamenti che potrebbero identificarsi in un percor­so pittorico che parte dall'autoritratto di Koncialowsky con la moglie se non vi fosse nei cromatismi e nei rapporti compositivi di Sughi rabbrividente sen­sazione di solitudine che Koncialowsky ignora o mostra di ignorare dilagan­do in un quotidiano domestico compiacente.

Nelle due ultime opere di Sughi non vi sono risonanze contadine eppure nel­le costruzioni macabre che si avvertono definite e corpose, vi è quel sentire unico, uguale, privo di identità e di caratterizzazione che esiste anche nella "Morte del padre".

Sughi conferma, in sostanza, l'unità del "suo" umano anche se le maschere, le forme, i costumi e persino le masse architettoniche - ruderi contadini o im­periali - si presentano diversi.

È un discorso coerente: è il rispetto dell'uomo tenuto a vile, conculcato, stan­co e smarrito nella sua condizione di paria che sollecita in Sughi la ricerca di chi possa moltiplicare pane e pesci o annunciare Beatitudini; è ostinazione nel promuovere quel recupero di dignità che rischia di assumere, se non controllato, dimensione epico-mitica o divenire addirittura canzone di gesta. Se non fossimo convinti che Sughi non vive ristretto nei confini di un mondo politico e sociale, che sa custodire quella libertà di spirito che corrisponde al­la vita vera dell'arte, saremmo spinti a pensare che col "Tramonto romano" e col "Teatro d'Italia" abbia affrontrato oscuri minotauri pubblicizzando, con la sua cronaca/pittura, l'incertezza e i timori che confondono il nostro tempo.

Antonio Marotta (1984)

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