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di Alberto Gianquinto

Figurazione della testimonianza


Vorrei dire che l’opera di Sughi è contrassegnata da una assai forte e rara unità. Unità tematica, certificata ed anzi sottolineata dalla critica, ma anche unità formale, ferma ovviamente restando la sua evoluzione e quindi l’esistenza di una ‘geografia’ delle differenze. Unità, che penso di caratterizzare, usando una citazione dell’artista stesso, come pittura figurativa della testimonianza, intendendo, con questo termine, il valore di ‘attestazione’, di indizio-che-documenta, di ‘prova’ di qualcosa attraverso qualcos’altro, che da essa si esplicita.
Ma vediamo meglio. Dal lato dei contenuti si è evidenziato, con molta insistenza, il tema esistenzialistico della incomunicabilità, della solitudine e della melancholia, che caratterizzerebbe ed anzi sarebbe l’oggetto della ricerca, in una cornice, secondo alcuni, di intimismo ottocentesco “incipriato di Novecento”. Direi, piuttosto, che la figurazione di Sughi non può essere inquadrata e costretta in questa visione romantica della vita: non sono, infatti, i ‘fondali’ notturni e del quotidiano - in se stessi - a costituire il vero (il più profondo) e costante oggetto (che anzi sono quello esterno e apparente), perché l’argomento, l’oggetto che viene realmente posto in questione nell’opera è, dietro l’apparenza contingente dell’accadere esistenziale, il tempo e lo spazio della vita (e, con esso, la morte), tema che, come si sa, non appartiene al solo pensiero romantico.
Se di testimonianza si può parlare nell’opera di Sughi, questa non va allora intesa nel senso di una vicinanza alle scuole del realismo o del neorealismo, anche se le affermazioni dell’artista sulla sua sostanziale non appartenenza a scuole non vogliono intendere anche una distanza assoluta da singole scuole e artisti; ché invece vario è il loro peso e l’influenza avuta: Caravaggio, ovviamente, alla base di tutti; e Velázquez, continuatore del modello caravaggesco e, in particolare, per le opere dove la figura si fa plastica e, forse, per quel suo ‘impassibile’ naturalismo, per quell’impassibile osservazione del teatro del mondo e della vita, che non è indifferenza, ma un ambito di ‘testimonianza, comune a Sughi; e Goya, per l’aspetto drammatico e beffardo che coglie della vita, per la fredda denuncia, per la tragicità ossessiva delle immagini e delle figure; Daumier e la sua satira sociale, politica e di costume, anche per la plasticità del suo chiaroscuro, fondo e cupo, e per l’energia sintetica del suo segno; e Degas, lontano dall’impressionismo e immerso in un mondo cittadino, del teatro (analogo a quello dei nights e dei bar di Sughi), con il suo taglio teatrale e cinematografico della composizione, con inquadrature che immettono direttamente nello spazio dell’evento, così da cogliere e offrire a chi guarda la senzazione dell’improvviso e dell’imprevisto, gli effetti dinamici nel contesto del colore e l’immediatezza di gesti modellati nella luce; e così Viani e le figure d’una umanità di prostitute. Tutte, però non più che tracce e lezioni, presenti nell’opera di Sughi.
In questo senso, anche il reiterato riferimento della critica all’opera di Bacon come termine di confronto è fuorviante e poco convincente, non solo dal punto di vista formale (rispetto a cui l’opera di Bacon, come quelle degli altri, è niente più che un indubbio richiamo culturale), ma ancor più sotto il profilo tematico: sia perché estraneo al mondo di Sughi è un punto di vista del reale sentito e inteso come visione governata dall’inconscio e con uno sguardo surreale (ma di atmosfera più vicina ad una metafisica surreale sono i ‘cicli’ Isole, Ville sull’Adriatico, Oggetti della casa), sia perché i temi della solitudine e della separatezza sono in Bacon carichi di forti e centrali valori etico-morali, anch’essi estranei a Sughi: l’uomo di Sughi è, in effetti, sì “sofferente della propria realtà”, ma, nel guardare alla sua condizione, non vi si pone con un esplicitabile atteggiamento di moralista (e neppure di psicologo), ma solo con quello del ricercatore di una sua personale verità. Ed è forse questa a-moralità di Sughi, (che non è affatto immoralità), per se stessa profondamente ‘laica’, che può aver infastidito certa critica ideologica e bacchettona.
Ricerca di verità, s’è detto. Oggetto dell’indagine è, in effetti, una ‘verità’ che sta dietro quel vissuto immediato, che può anche apparire alla fine sconfortante: dietro un vissuto, la cui constatazione fenomenologica di sconforto e d’estraniazione umana riguarda pertanto ancora la superficie delle cose, ma rinvia in effetti ad una richiesta implicita di sapere, di conoscere il ‘perché’ di questo stato di cose. Ecco il vero tema dell’indagine pittorica: come esprimere con una forma questo interrogativo (non la risposta, ma la domanda), che si pone all’interno dell’apparenza fenomenica. Il tema non è quello di un giudizio morale offerto nella ‘rappresentazione’ di ciò che ‘appare’; il tema è l’espressione figurativa della domanda implicita: dunque, ‘tema’ in vista di una pittura dell’espressione (non di espressionismo!); e attorno a questo ‘carattere’ del linguaggio - espressione - ruotano tutti gli altri caratteri (colore, luce, spazialità, composizione, movimento, matericità).
Uno sguardo alla forma: anche qui, come sul piano dei contenuti, c’è unità nell’evoluzione dell’opera. Un quadro, dice Sughi, nasce da tutto quello che si è dipinto prima di esso. Questa è in effetti una dichiarazione di continuità, che è anche di forte unità formale.
Unità di figurazione, che Del Guercio molto acutamente periodizza e distingue nel ripetersi oscillante e nell’alternarsi fra ‘circoscrizione’ e ‘dissipazione’ dei corpi - come presenze ‘sfioccate’ - “entro uno spazio renitente a ogni calcolabile geometria” e “condensazioni della forma”, in cui le presenze fisiche si danno però in una condizione di “assorta assenza”.
Figurazione, ancora unitaria, che passa anche attraverso rapporti luce-ombra più o meno stridenti. attraverso rapporti di tonalità monocrome e colore, in cui gamme più scure o più chiare ed anche squillanti si succedono lungo i periodi tracciati.
Figurazione, infine, che si muove fra maggiore e minore presenza d’uno sguardo ‘analitico’, ravvicinato, sulle cose - compreso quel periodo ‘verde’ del ’70, che offre la più intensa presenza dell’esterno (d’una natura che, tuttavia, non genera alcuna restaurazione del suo mito).
Figurazione, che resta però, e comunque, di continuità, perché, nel percorso evolutivo, dominante e unitario permane lo scopo creativo e tematico della ‘testimonianza’: non d’un malessere esistenziale in quanto tale, ma, al di sopra di esso e attraverso di esso, della certificazione figurativa d’un bisogno di “entrare nel cuore delle cose”.
Questo è il senso del ‘testimoniare’, che è ‘attestare’, cogliere ‘l’indizio’ di ciò che sta dietro o dentro l’apparenza, e che è dato dal vivere qualcosa ora, in modo specifico, attraverso qualcos’altro, nella memoria, nel ricordo; o, viceversa, è rivivere il ricordo attraverso quel che accade ora: il malessere di oggi. ‘Malessere’, che è nella differenza, nella distanza e nella discrasia fra un qui-ora e l’altro, spazialmente dislocato altrove-e-ovunque e temporalmente dislocato nel passato (come mito e storia) e nel futuro (come utopia e progetto). Il “disagio” esistenziale è segnato da una ‘laica’ riflessione, da una necessaria ricerca, da una ‘presa d’atto’ razionale.
Questo ‘vero centro’ della ricerca formale di Sughi affiora, sia attraverso una deformazione espressiva (quella necessaria “corruzione dell’ordine formale” che rende possibile la “trasparenza dei caratteri”), sia tramite una ‘selezione’ dell’oggetto nello spazio scenico (anche teatrale, cinematografico): soluzioni formali, che consentono il grande spessore semantico; soluzioni sintattiche, quindi, che retroagiscono sullo spazio semantico dei significati e del contenuto.
Figure inquietanti, insolite, ambienti rarefatti sono, come dice Cavallo, “l’anima che da ineffabile astrazione si fa come concreta icona”; il potere di uno sguardo e d’un gesto si fanno mezzi rivelatori di quell’attesa (anche ‘beckettiana’ attesa), che è sostanza della ‘testimonianza’; il rapporto stretto che intercorre tra colore e stato d’animo espressivo, tra luce e figura, così come la spazialità e l’immobilità compositiva e il suo ‘taglio’, che fissa e pietrifica l’istante dell’attesa, sono l’attestazione di qualcosa che viene colto nell’indizio di un malessere, di un disagio osservabile proprio nello spazio dove (e nel momento in cui) questo non dovrebbe essere presente (il night club, un bar, il cinema, una stanza per l’amore e il sesso).
Sono scelte formali, di composizione, di colore, di espressione, di forma e deformazione, funzionali allo scopo di dare al contenuto, all’immagine mentale, valori semantici ben più alti e profondi della semplice registrazione fenomenologica del malessere sociale (che altrimenti resterebbe per sempre incompreso, non essendo mai posta la domanda su di esso). Ben diversamente, dunque, da quel che Di Genova intende, quando allude quasi ad una sorta di gusto della perversione romantica e decadente, è Sughi stesso che autentica quanto si viene dicendo: il vero centro dell’arte sua è quel “guardare meglio”, portato sull’esistente, per non voler “morire tutti i giorni insieme alle cose che durano un giorno”.
Le distinte temporalità delle due realtà, quella del passato (e della memoria che lo conserva) e quella del presente (che guarda), generano e costituiscono fra loro una sorta di slittamento mentale nell’atto dell’osservazione, sicché quel che viene visto e percepito si sdoppia, per così dire, caricandosi di significati che gli vengono da altrove, si gonfia di un senso che non gli appartiene in sé, ma gli deriva da altro, di cui è semplice traccia, puro indizio. In questa connessione di un ‘adesso’ fenomenologico con un ‘allora’ mentale, mnestico, in questa sovrapposizione che assegna alla testimonianza una durata, una sua fittizia eternità (un non-esser-più-ora), si compie l’atto effettivamente e tutto creativo, che genera (o chiede) le forme, necessarie a ‘registrare’ la sovrapposizione e che alle forme stesse dà la potenza di caricare il fenomeno dell’ambiguità dello spessore semantico. Questa tutta specifica interazione della spazialità semantica dell’immagine e della memoria con le strutture temporali della sintassi del linguaggio pittorico è la modalità creativa di Sughi.
Una tale ricerca (lo si è detto con riferimento a Bacon e lo conferma Sughi) esclude un’intenzione di diretta denuncia etico-politica. Arte e politica sono ambiti autonomi. “La pittura non può dar voce a ciò che le è estraneo”. Lo spazio della politica è soltanto e semplicemente colto e riassorbito nel linguaggio figurativo, come quello della realtà. La lezione di Gramsci e di Benjamin nei riguardi dell’arte engagée è pienamente raccolta. La lettura e l’interpretazione della storia sono semplice condizione critica: “ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto s’è fuso e immedesimato”.
Insomma, rifiutando un’identità di quadro e vita si dice che il qudro è altra cosa, che sta dentro la storia personale, ma percepisce una storia ‘esterna’ e, di essa, solo quello che il pittore sa. È la forma, quindi, che domina sul contenuto, anche per questo verso. Non si può parlare di pittura ‘della storia’, perché non c’è rigore e sistematicità storica, piuttosto si tratta di pittura che osserva (a volte anche con ironia) e indirettamente documenta l’estraniazione dell’uomo dalla sua storia, ma senza porre questo come obiettivo diretto e scopo. L’impegno civile e la condizione umana individuale, che possono genericamente muovere le scelte, sono sopravanzati dall’interesse formale, centrale questo, al modo di raffigurare quella estraniazione. In questo contesto, il tentativo fatto con Il gioco dell’apparenza, al Museo Nazionale di Castel S. Angelo di Roma [1986], di una lettura dell’opera per cicli (i dieci quadri di Nascita e morte di una vocazione [1969], il gruppo di opere chiamato La Cena [1976], i quadri di Immaginazione e Memoria della Famiglia [1981]: ‘oggetti’, che sono una metafora, uno stile, un racconto sul filo della memoria), non tocca la vera sostanza unitaria della ricerca, per cui Sughi stesso deve dire che un criterio puramente cronologico di presentare l’opera è più appropriato; appropriato alla comprensione formale, perché la divisione tematica dei contenuti resta in fondo superficiale.
Questa laica ricerca non ha dunque lo scopo di prendere ‘parte’; se c’è convinzione morale, questa non tocca la creazione artistica, si raccoglie invece (pittoricamente) tutta nell’aspettativa testimoniale: ma non in una raffigurata aspettativa concreta (come una certa utopia), ma in quella che è presa come oggetto stesso, come stato psichico colto nell’osservazione fenomenica e attraverso di essa. Lo strumento dell’arte è sopra (o diverso da) il piano etico-morale: non è di per sé ‘messaggio’, ma mette invece in campo la disposizione a un’indagine sulla vita che guardi oltre il malessare. Rispetto al linguaggio dell’arte, questa disposizione è rifiuto d’adagiarsi nella semplice ‘narrazione’ fenomenologica della realtà: e tutti i ‘caratteri’ del linguaggio - luce, colore, spazio, composizione, ambiente ed espressione - alludono sempre ad un ‘oltre’, trans-fenomenico: non è la libertà informale del cogliere il mondo esterno ad essere in questione, ma una creazione capace anche di mettere in causa il problema della crisi dei linguaggi dell’arte, che è anzitutto crisi dell’unità di forma e contenuto e che si è configurata anche attraverso le antinomie categoriali, con le quali si è combattuta la battaglia sul linguaggio: categorie della costruzione testuale, della tipologia semantica, delle figure ‘retoriche’.
Ricapitolando, dunque, nella specificità della modalità creativa di Sughi, in cui il valore semantico dell’immagine è raggiunto attraverso forme che, anziché cogliere con allegorie e metafore il senso dell’attesa (della testimonianza) attraverso l’utopia concreta (storica), intendono raffigurare invece l’attesa stessa come oggetto formale nell’espressione delle figure (perciò pittura ‘figurativa’ dell’espressione psicologica, come testimonianza di un ‘oltre-il-fenomenico’): in questa modalità creativa non c’è spazio per la ‘narrazione’ del reale. È la narrazione (come categoria della costruzione testuale) che va invece trascesa, per andare oltre e cogliere l’oggetto-‘testimonianza’ come raffigurazione: espressione delle figure nello spazio-scenario esistenziale.
Rifiuto della ‘narrazione’ non significa minimamente volersi porre sull’altro versante, della ‘descrizione’: la dicotomia avanzata da Lukàcs (a proposito della teoria del romanzo), come categorizzazione del ‘testo’ (anche pittorico), viene trascesa infatti nel quadro creativo di Sughi, dove la ‘realtà’ non è quella immediatamente storico-fenomenica, degli avvenimenti; una realtà, che l’artista non vive né come ‘partecipante’, né come mero ‘spettatore-osservatore’, né entro le connessioni propriamente causali della narrazione, né al contrario nella incoerente irrelazione delle pure descrizioni, bensì – come s’è detto – nella partecipazione e, insieme, in un distacco interrogante, che vuole raffigurare proprio lo stato dell’esserci e del chiedersi insieme: quello della domanda sull’esserci.
Lo sforzo di saldare forma e contenuto su questo terreno (ricerca formale che – vale ancora sottolinearlo - ha per oggetto uno ‘spessore semantico’ non osservabile, non direttamente raffigurabile) è una consapevole reazione alle ‘poetiche’ delle due opposte avanguardie dell’astrattismo e dell’informale. Quegli spazi sono sentiti, infatti, esauriti, sono conclusione e punto d’approdo del percorso iniziato nel diciannovesimo secolo, quando si rompe l’unità di contenuto e forma e si perde il nesso interattivo tra semantica e sintassi.
Sughi è indifferente ed in tal modo fortunatamente fuori dal clima del dibattito radicalizzante delle avanguardie. E come l’incrinatura storica nella ‘costruzione testuale’ (dalla crisi del racconto all’avanzare poi della forma analitico-descrittiva, conseguenza dell’abbandono d’interesse per il grande disegno storico) è un evento consapevolmente marginale nella sua ‘poetica’, anche la polarità delle ‘tipologie semantiche’, indicata da Goethe, rientra in quella suddetta problematica ed è parimenti sentita come laterale: l’allontanamento, o meglio, la distanza dall’allegoria storica e mitologica si certifica, non perché questa è forma di un’esperienza artistica superata e già bruciata dalle prime avanguardie (quelle cosiddette ‘storiche’), ma perché i valori allegorici del codice implicano una ricerca, a Sughi estranea, del particolare come tale, da prendere ad ‘esempio’ (poniamo: l’Allegoria della prudenza, di Tiziano), dove il personaggio deve entrare soprattutto come rappresentazione oggettiva e come cifra (oltre la somiglianza fisica) di un universale: distante, dunque, da quella ricerca (da quella soluzione formale) di raffigurazione di ciò che sta invece oltre la figura stessa e che la rende singolare, inquietante, e ne fa il varco per entrare nel cuore delle cose.
L’allegoria, che la si trova in un contesto a-storico, come ricerca intellettualistica, come “modo di espressione decentrante e immagine ‘dialettica’ di sensibilità e intelletto”, non tocca il tema di Sughi: testimonianza nell’immediatezza stessa del qui ed ora.
E questa lontananza dall’allegoria non significa vicinanza all’altro versante della tipologia, quello simbolistico, perché la particolare raffigurazione di Sughi non è simbolo universale, non è sublimazione simbolica, non è simbolica apparenza (fusione nebulosa e mistica dell’intuizione), ma rappresentazione di stato psichico, a cui nella vita forse (ma non nell’osservazione che, dell’esistenza, Sughi ha sotto gli occhi) è affidato il nesso fra esempio e suo valore universale: non, dunque, Il sogno di Odilon Redon è quel che persegue Sughi, ma la raffigurazione dello stato del sognatore, che porta a ciò che sta dietro il sognare.
Insomma, un rapporto sia allegorico che simbolico fra parte e tutto pone un vincolo troppo forte sul campo in cui si muove una ricerca sull’humus incerto, in cui entrambi i valori si presentano del tutto ambiguamente a chi si interroghi sull’espressione figurativa di ciò che sta dietro uno stato di malessere esistenziale.
E quel che non è allegoria non è neppure metafora, figura retorica della similitudine (dove l’oggetto è designato da altro oggetto e dove l’immagine slitta dal riferimento temporale, storico, a quello spaziale - della similitudine appunto - che scarta la storicità). Anche nell’ambito delle cosiddette figure retoriche impiegate, in Sughi non c’è interesse al valore metaforico (tanto meno a quella ‘associazione’ ‘metonimica’, così ampiamente impiegata nei linguaggi delle più recenti avanguardie letterarie), perché la metafora non è sufficiente da sola a guardare oltre il malessere delle cose.
Dunque Sughi è del tutto consapevolmente estraneo al dibattito linguistico, avendo trovato già la sua strada, che passa al confine fra le coppie dicotomiche, se non al di sopra di esse. Le avanguardie, che dapprima ruppero i ponti col passato (il mito e la storia) e poi con l’utopia del futuro, si sono rinsecchite in una fenomenologia senza movimento, nel cinismo di un’assenza di prospettiva, senza il potere rigeneratore del ricordo e nella mera e cieca osservazione del presente, dove muore l’immaginazione creativa: hanno fatto il loro tempo e di questo l’opera di Sughi è ampiamente e direttamente testimone.
E allora, quando egli asserisce che dipingere è immaginare e dare forma ed ordine alle immagini e aggiunge che il pittore deve sapere “quello che la pittura offre”, egli sa pure che il rapporto di forma e contenuto è quello centrale nella crisi dell’arte e che esso è in realtà una interazione, che va perseguita. La crisi fondamentale dei linguaggi, aperta nella seconda metà dell’ottocento, portando alle sue conseguenze estreme proprio la rottura dell’unità di forma e contenuto (cioè – dinamicamente – dell’interazione che le modalità sintattiche hanno sull’espressione dei contenuti semantici) è una rottura storica, che ha mostrato le conseguenze di un esito autonomo e separato: l’astrattismo, come forma che pone se stessa a suo contenuto (in una circolarità autoreferenziale), e un contenuto a-formale e informale, come reiezione di ogni vincolo di forma, come sostanza senza la sua elaborazione (la smorfia felina senza il gatto, secondo un Valery citato da Bacon). Ogni altra categorizzazione della crisi, oltre questa (‘astratto-informale’), è mero suppellettile critico, perché già tutta contenuta nei due termini di forma e contenuto. Dice Sughi di avere attentamente osservate queste esperienze astratte e informali, senza esserne coinvolto; sa perfettamente, quindi, che ciò di cui si tratta oggi è il ritrovamento e la ricostituzione dell’unità, uscendo possibilmente dalla astratta ‘identità’ crociana, verso una interazione dinamica dei termini.
Dunque, come parole-chiave: espressione figurativa di una domanda esistenziale, pittura dell’espressione e, attorno a questo carattere centrale, tutti gli altri caratteri del linguaggio.


Alberto Gianquinto

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