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Sergio Zavoli:
Intervista ad Alberto Sughi
(2007-9)

Z) Un artista del tuo rango, insediato nella storia stessa della pittura, come si misura con l’idea di una crescente marginalità dell’arte? Ne sei sempre convinto?
S) Arte è una parola che oggi sembra fare riferimento a tutto e di più, perdendo il suo significato tradizionale da quando, nel trascorrere del tempo, è venuta meno la sua funzione originaria.
Le aspettative e le paure dell’uomo moderno si rivolgono sopratutto alla scienza, alla religione, alla politica, al danaro per trovare risposte o conforto.
Ne consegue che l‘Arte gioca ormai un ruolo marginale. In altre parole, ho l’impressione di vivere all’interno di un tempo che non ha più bisogno di Arte.

Z) La tua arte stessa non avrebbe motivo di smentirti? Oppure siete complici di un paradosso?
S) La mia pittura riflette il mio pensiero; direi addirittura che ne dà un'immagine più chiara. Spesso si è detto e scritto che rappresenterei il sentimento della solitudine: è vero, il mio lavoro mostra la solitudine, la lontananza della mia pittura rispetto al mondo di oggi.

Z) Perché, di fronte a una temperie così lacerante non è seguito un distacco reale, non c'è stata un'abiura?
S) Non ho mai pensato, né ieri né oggi, di potermi allontanare da me stesso (e perdona se di me e del mio lavoro pretendo di fare, in questa conversazione, un cosa sola); ci si attrezza per sopravvivere su un’isola deserta, figuriamoci se non si può continuare a fare un lavoro che si ama anche quando i contorni del suo significato sembrano sfocarsi, perdersi....

Z) In un mondo sempre più votato al criterio dell’utile, del pratico, del conveniente, perché hai immaginato di potervi vedere anche la sconfitta dell’arte?
S) E' il mondo che individua come valori primari l’utile, il pratico e, soprattutto, il conveniente, a non avere più bisogno dell’arte...

Z) Che cosa è venuto meno, o è cambiato, delle motivazioni che hanno reso importante il tuo percorso artistico?
S) Forse è solo caduta un’ illusione. Che l’Arte potesse far ancora parte del processo di formazione della nostra identità sociale. Non è andata così, per questo parlo di marginalità dell’arte.

Z) Questo disincanto è qualcosa di ineluttabile? Sei tentato di resistergli, o ti abbandoni alla sua fatalità?
S) Parlerei piuttosto di presa di coscienza. Non possiamo chiudere gli occhi solo per non provare amarezza.

Z) Ricordi come nacque il tuo primo quadro? E da che cosa fu ispirato?
S) Dipinto su una tavola di compensato, annerito dal tempo, il quadro è ora appeso nella cucina della casa di Carpineta. Ricordo bene il titolo, il primo che ho dato a un mio quadro: La carità cristiana. Rappresenta dei poveri che ricevono una gavetta di minestra dai frati.
Potrei dire che da sempre, da quando ero ancora bambino, avevo disegnato con la penna o il carboncino, ma quello fu il mio primo quadro a olio.

Z) Si diventa pittori, suppongo, disegnando. Erano disegni estemporanei o di scuola? Di fantasia o dal vero? Quali dei due percorsi testimoniano di più il talento? Dipingere e disegnare obbediscono a inclinazioni diverse o sono un tutt’uno?
S) Diversi sono i motivi che fanno scegliere a un giovane di misurarsi, all'inizio, con il disegno o direttamente, con la pittura; certo, non è così netto come scegliere la poesia e la musica. Nel primo caso si può scegliere, nel secondo si può solo essere scelti. Ma anche il talento naturale nell'usare la parola, quello di avere nell’orecchio la musica, o nella mani la facilità del disegno può aiutare a intravedere un percorso, e tuttavia non essere determinante per diventare un pittore, un poeta o un musicista.
Il talento è uno strumento prezioso per chi ha qualcosa da dire; è un dono naturale inutile, a volte dannoso, quando non diventa espressività, ma solo virtuosismo.
Non so, infine, se si possa affermare che disegnare o dipingere siano un tutt’uno; a me la loro connessione appare molto forte.

Z) Quali furono, se ci furono, i tuoi modelli? Ne avevi già o nacquero via via? Oppure tutto avvenne fra te e te, sulla tela?
S) Si sfogliano le pagine della storia della pittura; modelli diventeranno poi quegli artisti che, istintivamente, ci hanno più affascinato. Qualche segno di quell’innamoramento giovanile rimarrà presente, magari nascosto tra le pieghe della nostra pittura.

Z) Non si è mai esenti, in assoluto, da ciò che si è visto, si è ammirato, si è amato…
S) Sono pienamente d’accordo, è un’eredità che non dobbiamo, direi che non possiamo dissipare!

Z) Nel farsi dell’identità, quali sguardi, letture, dialoghi, scontri, assonanze hanno via via lasciato una traccia nella tua ricerca? O tutto è nato senza memoria e confronti?
S) La nostra identità nasce dal confronto, a volte dallo scontro, con gli altri, e si costruisce attraverso il processo formativo che ci offre la cultura intesa come conoscenza del mondo in cui siamo immersi: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo...le nostre curiosità intellettuali continuano a cercare una risposta a questi ricorrenti domande.
Qualche volta, da giovani, abbiamo creduto di avere individuato “l’anello che non tiene”. Passati gli anni, molto si decanta, quello che un giorno ci era sembrato un percorso lineare e necessario oggi lo guardiamo con altri occhi; ma tutto ciò che siamo stati, o che abbiamo creduto di essere, che abbiamo amato o rifiutato, rimane al fondo di noi.

Z) Già nella loro prima sequenza giovanile, le tue tele dichiaravano una chiara propensione concettuale e stilistica. Era una sorta di realismo un po’ dolente, con quale piegatura verso una palese complicità umana, e una particolare attenzione sociale, politica, se non anche ideologica. Come si conciliava quel genere di rappresentazione sentendo di doverle anteporre la scelta esistenziale, l’indipendenza espressiva, la libertà culturale?
S) La risposta precedente, che poteva apparire coerente e lineare, in realtà conteneva, come avviene quasi sempre, molte contraddizioni.
Nel caso di un pittore le distinzioni tra il pensiero e l'opera si possono notare con maggiore evidenza. Ho sempre pensato che la pittura sia una specie di laboratorio per capire un artista anche al di là di ciò che lui stesso pensa di credere; ma potrebbe anche darsi che l’arte sia in grado di unire ciò che appare diviso.
Z) Il clima politico di quegli anni ebbe qualche influenza sul tuo lavoro? E le frequentazioni? Ci furono “compagni”con i quali condividere passioni e dubbi?
S) Le forti contrapposizioni ideologiche di quegli anni hanno certamente influenzato le scelte di alcune generazioni. Alcune vicende ormai lontane hanno lasciato dei segni che sembrano non volersi sbiadire. Ma, passati i miti, molto si decanta, solo la qualità del lavoro può rimanere un termine, si spera confortante, di riferimento.

Z) Sentisti mai di potere o dover stare in una cordata, di aderire a una tendenza?
S) Prima si stava insieme per le affinità che il nostro lavoro esprimeva. Non ho appartenuto a nessuna scuola, ero distante dalla corrente neorealista perchè la sua teoria mi sembrava inutile, e persino dannosa, per potermi confrontare liberamente con la realtà.
Ma c’è stato chi, l’esempio è Guttuso, deve avere considerato questo problema in maniera diversa; e non possiamo sapere se certi suoi quadri sarebbero stati altrettanto belli senza una così esplicita adesione al neorealismo.
Ciò che per un pittore è motivo di sollecitazione intellettuale e creativa, per un altro può essere motivo di frustrazione, apparire quasi una prigione. Chi pretende per sé la più ampia libertà di espressione non ha il diritto di censurare chi ha preso strade diverse dalla propria.

Z) Hai mai assecondato, con il tuo lavoro, un’idea politica?
S) I critici più legati al Partito hanno guardato con molto interesse il lavoro dei pittori tra i quali, per alcune affinità ero anch'io.
Forse ne facevano una lettura distorta, a meno che non fosse una inconscia, cattiva coscienza ad apprezzarne i risultati. Quei quadri non volevano compiacere o assecondare nessuno, bensì indicare uno stato di malessere all’interno dell'uomo e della società.

Z) Avesti mai, in quali circostanze e forme, un incontro o uno scontro con l’ideologia?
S) Come cittadino sí, anche se per inclinazione e carattere l’ho vissuto l'uno e l'altro in maniera eterodossa, con un atteggiamento libero e contraddittorio. Come pittore non posso e non voglio indicare un punto di vista a chi guarda i miei quadri: potrei solo consigliare di non prestare troppa attenzione a chi ha creduto di sistemarli, criticamente, con una fretta non saprei dire, mi scuso per la malizia, se più pigra o interessata.

Z) Che cosa sostituì l’assenza della scuola, dell’accademia, dei modelli? E di maestri che ti guidassero, per così dire, la mano?
S) Guidarsi da soli non è facile, ma quale significato può avere un maestro che ti guida la mano se poi, per apparire originale, dovrai dimenticarlo più in fretta possibile ? Nel 1970 Colacicchi, allora rettore dell’Accademia di Firenze, mi offrì la cattedra di pittura. Ringraziai per la stima che mi manifestava, ma rifiutai. Sapevo, per usare le tue parole, di  non poter guidare altro che la mia mano.

Z) Quando avesti il primo segno di un interesse non occasionale della critica? Da che cosa fu colpita? Come si espresse? Ne fosti lusingato o deluso? Fu un incoraggiamento o no?
S) Quando nel 1957 tenni la prima mostra personale, a Roma, nella galleria Il Pincio, il Paese Sera, un giornale di sinistra piuttosto autorevole, dedicò l’elzeviro di terza pagina alla mia esposizione titolandolo “Alberto Sughi e il Realismo”. Si leggeva, nelle prime righe, che era arrivato a Roma l’Arcangelo non solo della pittura, ma anche della realtà!
Questo sarebbe stato forse sufficiente perché un giovane pittore sentisse di volare con le ali che il critico gli aveva regalato. Si, rimasi senza parole e con la tentazione di dare credito a quelle di Marcello Venturoli.
La mattina dopo vennero in galleria i miei amici pittori, tra gli altri Muccini, Vespignani, Attardi e Picconi a cantarmi una filastrocca romana “ Albé, Albé, Alberto Pippanera è il fi, è il fi, è il figlio della portiera…”
Era un tempo molto diverso da quello che viviamo oggi. Il gioco non faceva ombra alla stima che ognuno di noi riservava al lavoro dell’altro.

Z) In quali circostanze fra te e la critica - quella militante – è nato qualcosa di condiviso?
S) Militante è tutta la critica che opera per accreditare i valori in cui, ovviamente, crede. In Italia, militante sembra invece essere considerata solo la critica rappresentata da uomini che, non nascondendo la loro appartenenza alla sinistra, sono pregiudizialmente considerati ideologizzati.
Accetto, con tutti i suoi limiti, questa convenzione e provo, se è possibile, a rispondere alla tua domanda, cominciando dal raccontare, in sintesi, una vicenda molto complessa,
E’una storia che inizia dalla contrapposizione forte, all’interno della stessa sinistra, tra i pittori che sceglievano l’astrattismo rispetto a quelli che rimanevano convinti sostenitori della figurazione. Ritengo una distorsione (che ha provocato fratture e danni all’arte italiana) il fatto che ognuna delle due tendenze rivendicasse per sé una sorta di primato e che il metodo per ottenerlo assumesse i toni di una disputa destinata a produrre una dolorosa divisione nella stessa cultura di sinistra.
In queste dispute avevano un ruolo particolare - diverso da quello che si sono presi oggi - i critici d’arte. Si schierarono chi da una parte, chi dall’altra come militanti in una sorta di battaglia per appoggiare una delle due correnti (astrattismo - realismo ).
Per aumentare il danno di questa querelle intervenne il P.C.I. con il famoso scritto su Rinascita di Rodrigo (pseudomino di Palmiro Togliatti) che senza mezzi termini si schierava contro la corrente astrattista. Una battaglia culturale venne così ad assumere il carattere di uno scontro politico che ha continuato a pesare, in modo negativo, sulla storia dell’arte contemporanea italiana.
Ma tu mi chiedevi quale era stato il mio rapporto con quella parte della critica che appariva condividere il giudizio espresso dal Segretario del P.C.I se ne era nato qualcosa di condiviso e per quali ragioni.
Ho accennato alla divisione che aveva contrapposto gli astrattisti ai figurativi; l’intervento della politica determinò un vera e propria scissione. Le due parti troncarono un dialogo già diventato aspro, inconciliabile.
Le divisioni ripresero a manifestarsi all’interno dei due schieramenti. La sortita di Togliatti aveva prodotto sconcerto e acceso discussioni anche nel campo realista.
Il mio lavoro di allora trovava consensi e diffidenze dagli stessi intellettuali e critici dell’area figurativa con i quali intrattenevo buone frequentazioni data la mia appartenenza al P.C.I.
Lo pensavo già allora e lo penso ancora oggi; c’era una sorta di doppia coscienza all’interno di una generazione di intellettuali di sinistra che erano passati al comunismo durante la Guerra e la Resistenza .
Vorrei farti un esempio che mi pare significativo, anche se forse gli attribuisco una rilevanza maggiore di quanto possa averne.
Ero diventato amico di Mario Alicata, allora presidente dell’Istituto Gramsci e di fatto responsabile della Cultura all’interno del Partito. Un uomo di grande qualità, colto e affascinante. Nella sede dell’Istituto, parlando in veste ufficiale, esortava noi pittori ad assumere un ruolo che sembrava suggerito dalle teorie zdanoviane; ma quando eravamo insieme, in serate conviviali, si recitava Leopardi e Montale, si parlava di cinema e di estetica con sorprendente libertà di pensiero.
La stessa cosa avveniva con i critici d’arte che mi erano compagni, come Mario De Micheli, Antonio Del Guercio, Dario Micacchi.
Devo aggiungere che, non avendo mai trovato le teorie zdanoviane compatibili non solo con il mio lavoro, ho trovato molte amicizie e condivisioni anche fuori e lontano dal Partito.

 

Z) L’attenzione della critica di sinistra era rivolta a te, singolo, o come rappresentante di un “gruppo”?
S) Vorrei adoperare una sorta di metafora. Me la suggerisce il ciclismo degli anni tra il Trenta e il Quaranta, quando i corridori si suddividevano tra accasati e isolati.
Ho scelto di correre da isolato, sempre attento a come si svolgeva la corsa, ma preferendo interpretarla fuori da suggerimenti e convenzioni.
Un corridore mio conterraneo, Mario Vicini, da isolato, arrivò secondo al Tour de France del 1937, e si racconta che la vittoria, ormai a portata di mano, fu venduta per 40.000 lire alla squadra del francese Lapebie.
Io ho fatto un altro mestiere, dove non c'erano né ci sono traguardi da tagliare, non si possono compilare classifiche, e semmai si vendono i quadri, non le vittorie.
Mi rimane l’orgoglio di avere corso la mia avventura all'interno di un naturale isolamento.
Per molti anni la critica dei miei vecchi compagni di sinistra ha ignorato completamente il mio lavoro. Devo per la verità aggiungere che le cose si sono poi decantate: le illusioni erano cadute, il gruppo si era disciolto. Anche il Fante di Spade, di Mario Roncaglia, al quale avevo dato la mia iniziale, indisciplinata adesione.
Con Del Guercio, Micacchi e altri ritrovammo quel rapporto di amicizia e di stima che interessati proclami programmatici avevano oscurato.

Z) E Longhi, perché non lo citi? E Quintavalle? E Sgarbi?

S)  Ho cercatu di tenermi stretto alla tua precedente domanda  credendo di dover  soprattutto  parlare dei miei rapporti con la sinistra di quegli anni e con i critici d’arte che la rappresentavano; ma, come dicevo, ho trovato amicizie e sostegno  anche fuori da ogni  condizionamento politico.
Ho avuto la fortuna di  frequentare  la casa di Roberto Longhi  e di godere della sua stima. Conservo con cura  la nostra corrispondenza, e perdonerai  se trascrivo alcune righe di una sua lettera che  terminava, bontà sua,  con questa frase “ ….voglio dirle soltanto che il solo fatto di sapere che nel concerto “realistico” italiano esiste la pittura di Alberto Sughi mi rallegra e mi conforta molto.”  Longhi  è stato, per qualche verso, il maestro  che mi ha insegnato a tenere dritta la rotta del  mio  pensiero di pittore: “ L’opera d’arte – diceva- non dà spiegazioni, può solo esigere risposte argomentate”.
 Ricordo l’intenso sodalizio che si era creato tra me e Giuseppe Raimondi, scrittore colto e conoscitore d’arte,  nel cui studio si  incontravano critici, pittori, poeti di grande statura, tra cui la figura dolce e ferma di Francesco Arcangeli.
Sono stato amico di registi famosi e di scrittori che si interessavano d’arte figurativa, come Goffredo Bellonci, Carlo Bernari, Dino Buzzati ….
   Erano tempi molto  diversi da questo che viviamo, il mondo della cultura era più aperto , le corporazione sembravano sconfitte per sempre.
 Non  si deve tuttavia essere solo pessimisti;  forse, un dei saggi più  acuti e intriganti sul mio lavoro l’ha scritto nel 2005  Carlo Arturo Quintavalle in occasione della mostra al CSAC dell’ Università  di Parma e considero una fortuna  che questa mostra sia curata da Vittorio  Sgarbi, il critico d’arte che possiede l’occhio più sensibile e acuto nel riconoscere  la qualità dell’arte.
  

Z) A quali pittori, e perché, ti sentivi più legato?
S) Ai pittori della mia generazione che guardavano con maggiore interesse alla poetica e ai risultati straordinari del cinema neorealista, piuttosto che al Neorealismo come corrente di una pittura troppo ancorata a un coinvolgimento ideologico, per esempio a schemi formali rigidamente neocubisti.
Per fare qualche nome potrei  ricordare Marcello Muccini e Renzo Vespignani a Roma, Banchieri, Ferroni e Bodini a Milano, Saroni e Ruggeri a Torino, e naturalmente Cappelli, Caldari e Fioravanti nella mia città, Cesena.
Quando nel 1948 arrivai a Roma, diventai amico di Vespignani e Muccini. Nonostante avessero più o meno la mia età, erano gia artisti affermati; da loro ricevetti nuovi stimoli per accelerare il passo e, come capita ai giovani quando si rispettano, assumere un atteggiamento di emulazione.

Z) Qual era il fondamento teorico che più vi unì, e il punto di maggior distinzione?
S) Non avevamo teorie, ma orientamenti, sensazioni, curiosità condivise, che ci mettevano insieme. Quello che ci faceva sentire vicini era soprattutto l’esserci trovati nella medesima stazione di partenza per intraprendere un viaggio che dovevamo fare. Quanto alle distinzioni, ognuno portava dentro la propria valigia i suoi strumenti e i suoi sogni. Ma, ripeto, cominciammo il viaggio sullo stesso treno

Z) Chi inventò la definizione, nella quale foste compresi, di “realismo esistenziale”? Quali margini di compromesso vi trovasti, quali consonanze? E quanta protezione? Nessuna astuzia, nessuna scorciatoia?
S) E’ abbastanza complicato dare una risposta precisa, dato che la definizione “realismo esistenziale” nasce all’interno di una stagione culturale in cui quell'espressione rappresentava una maniera per ridefinire la parola Realismo, usata sopratutto per connotare la qualità del suo impegno sociale.
La parola esistenza, l’esistenzialismo, i nomi di Camus, di Sartre, di Kierkegaard li facevamo già, tra noi, mentre viaggiavamo nel treno dove eravamo saliti. E c’era chi portava i libri di Freud, di Marx, di Gramsci, di Hegel; e poi romanzi russi e americani e molti, molti libri di poesia moderna.
Ma c’era dell’altro, e in quell’“altro” era riposta la parte più significativa: bisognava fare una pittura libera, fuori da ogni codice, che rappresentasse la coscienza amara di chi si accorge che sta perdendo quello che gli dovrebbe appartenere.
Mi pare di ricordare che a parlare per primo di Realismo Esistenziale sia stato Marco Valsecchi. Egli coglieva una intenzione comune, riconducibile a quel significato, nel lavoro di un gruppo di artisti che, pur non avendo firmato nessun manifesto, proponevano un modo nuovo, rispetto al Neorealismo, di confrontarsi con la realtà: “ E’ finito che per taluni, i più scoperti, il realismo è divenuto una sorta di neo-espressionismo in chiave messicana. In chiave inglese, alla Bacon, per i più sottili e complessi di temperamento".
Se fosse vero che Realismo Esistenziale è stato solo una definizione per dare un valore di tendenza al gruppo di artisti che condividevano soprattutto ciò che rifiutavano, avrebbe fondamento il sospetto che la dichiarata omogeneità culturale di quel gruppo debba qualcosa all’astuzia, e sia stata, per certi aspetti, una scorciatoia critica.

Z) Quando, e come, si manifestò un’esigenza identitaria più forte, più esposta, più rischiosa?
S) Anche questa è una questione a cui non è facile dare risposte nette, o laboriose, per alcune ragioni che cercherò di dirti. La definizione Realismo Esistenziale non l’abbiamo inventata noi pittori: è stata data alla pittura che portava delle novità sostanziali nel dibattito culturale di quegli anni, allontanandosi dagli schemi del Neorealismo senza tuttavia approdare alla pittura astratta.
Penso che, dapprincipio, la definizione fosse passata attraverso consapevoli approssimazioni per la necessità di trovare un comune denominatore negli artisti che in realtà si muovevano, in quell'indirizzo, con curiosità e risultati diversi, così come aveva ben capito lo stesso Valsecchi.
L’espressione incontrò una grande fortuna e, nonostante siano passati più di cinquant'anni, si continua a usarla per fare riferimento a un gruppo di Milano e ad alcuni altri artisti italiani - io stesso inserito tra questi - che in Italia avrebbero rappresentato la tendenza del Realismo Esistenziale. Può darsi che qualcosa sia vero, ma sono convinto che si potrebbe comprendere meglio la nostra storia se, a distanza di tempo, guardassimo con più attenzione a quello che si è fatto piuttosto che a quanto si è detto.
Ho già accennato a come la nostra formazione portasse un segno abbastanza eclettico, una specie di rincorsa ansiosa per metterci al passo del mondo dopo gli anni del fascismo e della guerra.
Forse, ma potrebbe darsi il caso che io parli solo per me, fu quella sorta di assemblaggio culturale che aveva formato la nostra identità a contrapporci alla pittura neo realista.

Z) Il vostro gruppo ebbe mai la struttura omogenea – artistica e culturale – per essere una “scuola”, una “tendenza”, “una corrente”? Volle mai esserlo? Lo fu, in qualche modo?
S) Avremmo, noi, chiamato Realismo Esistenziale il nostro lavoro? Forse no.
Trascrivo, perché mi sembrano esprimere abbastanza bene il mio pensiero di allora sulla pittura, le ultime righe di un mio intervento dal titolo “Guardare e capire” sulla rivista Mondo Nuovo del 1960: “I giornali, la radio, i manifesti, il cinema e la televisione, i sensi vietati e i sottopassaggi tengono costretti gli uomini nel labirinto della grande città. Ma ho l’impressione che dietro ci sia qualcuno che ride, che non rispetta le regole; che mangia, beve e fuma in solitudine con una faccia nutrita di soddisfazione; qualcuno con piccoli occhi bianchi, che di notte passeggia nella città deserta padrone di tutto, con le mani in tasca, soddisfatto di come vanne le cose... E ho paura che esista perché, a ben vedere, anch'io lo lascio esistere. Temo, infatti che quell’uomo abbia qualche radice fin dentro di me; che anche lui sia un po’ lo specchio che riflette la mia immagine. Si può dipingere tutto questo? Forse si; si può anche dipingere”.
Non si doveva guardare solo fuori di noi, ma anche dentro noi stessi. Non è facile individuare dove può crescere il male: sembra sempre prodotto solo dagli altri. Alle volte gli “altri” siamo noi.

Z) Ma l'arte, dopo secoli di atteggiamenti ieratici non andrà vista e vissuta più laicamente, senza troppe liturgie e soggezioni? Cioè a una qualche distanza psicologica, emotiva? E con una certa indipendenza ideologica e intellettuale?
S) Sono pienamente d’accordo. Per fortuna, pensare all’arte in maniera più normale e laica è ormai un atteggiamento comunemente acquisito. Se pensiamo a Goya, agli impressionisti, e poi a Cézanne e Van Gogh, e poi ancora ai nostri Lega e Fattori fino ad arrivare, con Picasso, alla pittura moderna, ci rendiamo conto che sono  stati gli stessi artisti, ancora prima della critica, a suggerire un modo nuovo di riferirsi all’arte. Senza indipendenza ideologica e intellettuale non saremmo certo in grado di intendere la grandezza del loro lavoro.
Come potremmo poi apprezzare l’arte nata in epoche e culture lontane dalla nostra se non sapessimo guardarla da un punto di vista libero, laico?

Z) La questione del "saper vedere", nata per l'arte con l'A maiuscola, non ha giovato granché alla sua comprensione. Non si è fatto che celebrare il già celebre e convenire sul già convenuto, senza possibilità d'interferenza, di aggiunte o sottrazioni significative. La sistemazione critica e il sistema museale hanno raggelato l'aspetto comunicativo in una realtà intangibile, sacrale, fatta di rarità esemplari, e via così. Era questo il destino dell'arte? E' solo il già "accaduto", per essa e intorno ad essa: nelle chiese, nei musei, nelle fondazioni, nelle raccolte private, nelle mostre? È solo la sua storia?
S) Sono ancora d’accordo con le tue riflessioni, le domande che fai sono le stesse che faccio a me stesso, ma sono anche convinto che ormai ogni spiegazione sia inutile: nessuno è ancora pronto ad ascoltare, e lo stato delle cose rimane quello che è.

Z) Sai che cosa diceva Mallarmé del pessimismo? "L'incredulità non ha genio!"
S) Aveva ragione: il pessimismo può misurarsi solo con se stesso... non ha rivali, ed è incline alla rinuncia. Ma il mio è solo disincanto.

Z) Sei riluttante a separarti da un quadro che non ti persuade del tutto?
S) Si. Cerco di lavorarci sopra, dargli quella luce che gli manca. E' difficile arrendersi, gettare via il lavoro che per giorni gli hai dedicato. Ti sembra di aver trovato la strada per salvarlo e continui a starci sopra, e più ci lavori meno sai distaccartene; e allora pensi che sarebbe stato meglio lasciarlo prima, quando hai sentito che qualcosa non funzionava. Ma ormai avevi scommesso con te stesso di portare in porto il tuo quadro. Sarebbe meglio dire la tua tela dato che, a causa dei continui interventi, di quello che c’era nella prima versione non è rimasto quasi niente. Il porto, alle volte, è troppo lontano: il quadro sta affondando, e tu con lui quando prendi lo sverniciatore e cancelli tutto.
Non è tuttavia solo tempo perduto. Il pittore, dentro quell’avventura sfortunata, ha adoperato tutte le risorse che il suo mestiere poteva offrirgli, ha cercato soluzioni inedite, ha pensato intensamente al mistero dell’espressione pittorica, ha condotto una spietata analisi critica del proprio lavoro, ha passato giorni di assoluta dedizione. E alla fine si è arreso.
Avrà distrutto il suo quadro, ma ha assistito a una lezione di pittura che ha saputo fare a se stesso.

Z) Quanti quadri hai lasciato sotto i quadri? Hai mai fatto il conto delle tue sinopie? Credi che fossero tutti da ripudiare? Che cosa ti dice di avere scelto sempre per il meglio?
S) E’ accaduto più di una volta, e non posso sapere se ho sempre agito per il meglio. Non avendo più sotto gli occhi il dipinto scomparso, non ho più la possibilità del confronto. In genere il quadro scompare all’interno di modificazioni che si fanno sempre più fitte e che rappresentano il rapporto dialettico tra il momento del fare e quello in cui si analizza il dipinto. Sembra un filo che si dipana e fa confluire l’immagine scomparsa in quella che sembra averla sostituita. Si potrebbe allora dire che le versioni precedenti, le sinopie, alla fine raccontano la storia di un solo quadro.

Z) Senza mercato, come si forma la quotazione di un artista? Chi media tra domanda e offerta? Qual è il ruolo della critica nell'orientare, anche concretamente, il nesso tra l'artista e il potenziale cliente? O è sufficiente un buon marketing?
S) La quotazione delle opere di un artista è solo quella che si forma solo nel mercato e può salire o scendere come un qualsiasi titolo quotato in Borsa. Così come può accadere in Borsa, può succedere che anche nel mercato dell’arte, attraverso operazioni mirate, alcuni gruppi siano in grado di alterare le quotazioni.
Il ruolo della critica tende ormai a fare coincidere il valore di un artista con il valore della sua quotazione mercantile.
Esistono, per fortuna, artisti seriamente impegnati che, quasi ignorati dal mercato, trovano ugualmente estimatori e collezionisti; per una strana coincidenza questi artisti sono quasi ignorati anche dalla critica.

Z) L'artista che per insofferenza, senso di libertà, o alterezza, si nega alla logica mercantile quale danno ne trarrà, o quale giovamento?
S) Se il suo valore si potesse misurare con il metro di una pura valutazione artistica non subirebbe alcun danno; ma siccome questo metro non si sa se sia ancora in commercio, e nemmeno se qualcuno continui a credere a quell’unità di misura, penso che quell’artista ne trarrebbe più danno che giovamento.

Z) Che opinione ti sei fatto del rapporto con i tuoi "mercanti"?
S) Nel corso degli anni, ho  lavorato con più di un "mercante" (fai bene a mettere le virgolette, non sono tutti uguali) conoscendo persone differenti per cultura, tratto umano, capacità professionale.
Sono giunto tuttavia alla conclusione che, tra loro, siano maggiori le somiglianze rispetto alle differenze.

Z) Quanto influenza il mercato il lavoro dei critici? E viceversa, naturalmente?
S) La legge del mercato, attraverso l'ormai incontestata formula offerta - domanda, sembra essere il solo riferimento attendibile per determinare il prezzo-valore di qualsiasi merce destinata alla vendita.
Ne consegue, per restare dentro il tema della nostra conversazione, uno spiazzamento della critica che perde l’autorevolezza  assegnatale per indicare il valore di un’opera d’arte.
La maggioranza dei critici, salvo rare e virtuose eccezioni, ha finito per riconoscere il primato del mercato, ritagliando per sé un ruolo di supporto, di consulenza, a volte di autenticazione.
A influenzare il mercato sono anche i capricci di un nutrito numero di clienti ricchi e isterici.

Z) Perché, sebbene la scrittura colta, difficile, non di rado criptica, dei critici sembra riservata alla complicità tra chi fa uso delle stesse costruzioni dialettiche, sintattiche e lessicali? Perché i critici militanti hanno conservato, in genere, le modalità espressive che il pubblico più debole non capisce e quello più esperto non apprezza, in quanto denunciano una sorta di liturgia astrusa e persino elitaria? Mi viene in mente quel perfido "che si dice, che si dice ", con cui Cardarelli s'informava degli eventi più conclamati...
S) La sorniona ironia del “che si dice “ di Cardarelli, come le battute di Flaiano che portavano scompiglio nella casta seriosa di certi intellettuali, non sembrano trovare oggi un interprete che sappia smontare con poche parole taglienti e divertite i castelli di sabbia costruiti da critici che parlano il linguaggio degli sciamani.
Ma forse non esiste altra maniera per accreditare, come arte, opere ancora più incomprensibili di ogni astruso commento.

Z) A parità di conoscenze e sensibilità, quando è più facile, o più arduo, esprimersi criticamente? Di fronte a un quadro, poniamo, del Seicento, oppure a un altro, diciamo, del Duemila? La lettura del primo e del secondo in che cosa differisce dal punto di vista degli strumenti cognitivi? Perché si ha, in generale, un chiaro apparato interpretativo, e una scrittura relativamente più nitida, nell'affrontare la pittura figurativa, rispetto al tasso di astruseria, ambiguità ed ermetismo cui va incontro chi analizza quella informale?
S) Direi così: quando il sentiero è illuminato si procede con passo sicuro, quando si fa buio si va avanti a tentoni e qualche volta si inciampa.

Z) Come giudichi la pratica dell'expertise? Dà maggiori garanzie l'occhio dello studioso o dell'artista?
S) Quando non sia in gioco un valore di carattere culturale, sistematorio, il vero occhio per capire un quadro dovrebbe essere il nostro. Quello per amarlo è nella facoltà di ognuno e di nessuno.

Z) Arturo Martini, nel ’45, scrisse che la scultura era morta. “Dopo quarant’anni di lavoro, quando, come per il baco da seta trasparente, era giunto per me il momento di alzare la testa, mi sono accorto che, nella scultura, tempo e possibilità di miracolo erano chiusi per sempre”.
Tu, che non hai visioni apocalittiche, visionarie, emozionanti, pensi ugualmente che l’arte i suoi miracoli li abbia già tutti fatti?
S) Se un giudizio a tal punto definitivo è stato espresso da uno dei più grandi scultori contemporanei, bisognerà prestare molta attenzione a una riflessione così amara.
Il mio pensiero, sostanzialmente vicino a quello di Arturo Martini, rovescia in qualche modo la questione: viviamo in un tempo che non chiede più miracoli alla pittura e alla scultura.

Z) Tu hai vissuto la grande temperie che portò alla caduta del Muro con una coerenza che non rivendicava primogeniture, non ostentava militanze, non difendeva preveggenze. Ricordi che fosse rimasto, di quell’esperienza, qualcosa di inconcluso, di non chiarito del tutto, da dover spiegare principalmente a te stesso?

S)   L’implosione del sistema comunista, cioè la disgregazione dell’ U.R.S.S, aveva sepolto sotto le macerie del Muro tutto quello che sembrava apparentato al comunismo. La stessa parola socialismo era ormai oggetto di gravi sospetti.
La guerra fredda era finita, l’Occidente, alla fine, l’aveva avuta vinta.
Si aprivano nuovi scenari, e si fidava in un mondo che credevamo finalmente riappacificato, e più libero. “La vita cammina e ricomincia daccapo”, recita un verso in una poesia di Tito Balestra. Dopo una decina d’anni le due Torri, l’ "11settembre”: è il terrore, poi un'altra guerra guerreggiata, la morte di migliaia di vittime innocenti getta il mondo nell’insicurezza. Non è più la contrapposizione tra l’Occidente democratico e l ‘U.R.S.S del "socialismo reale" a provocare la scontro: è il conflitto tra una parte dell’Islam e l’Occidente. In altre parole, è una guerra che vuole essere percepita come una guerra tra religioni.

Z) Di te può dirsi, col senno di oggi, che in realtà non hai militato neppure per te stesso, che sei appartenuto solo al bisogno di capire, montalianamente, ciò che non eri, ciò che non volevi…?
S) Anche se i versi di Montale - come sempre avviene nella grande poesia - ci seducono ancora prima di averne compreso compiutamente il significato, mi piacerebbe, se attraverso la mia pittura, si capisse quello che non sono, quello che non voglio...

Z) Mi ricordi Carlo Bo, il suo “letteratura come vita”. Hai fatto della pittura, a tua volta, un tutt’uno con te stesso. “Non c’è merito”, dici, ne parli come di un destino. Mai un’avvisaglia del dissidio d’oggi, uno scontento, un senso di pienezza, una delusione, un sospetto di inutilità. Né uno scatto d’ira, di ripulsa, perché?
S) E’difficile dire cos'é la nostra vita, dato che non è quasi mai una sola cosa; se alcuni aspetti del nostro essere hanno finito per rappresentare la nostra identità, altri, tenuti in una specie d’ombra, ne sono la parte nascosta.
E’ vero, col passare del tempo, la pittura è diventata un tutt’uno con la mia vita. Forse è accaduto quando tutte le contraddizioni che mi sono portato dietro hanno preso consistenza, unità e durata dentro le mie tele.
Certamente si attraversano momenti di scontento, di impotenza, e spesso un sentimento di inutilità, ma sono cose di tutti, d'ogni giorno.

Z) I grandi quadri, la molta tela da dipingere, lo scenario da riempire, le parti da distribuire: anche tu crescevi di misura e aumentava il governo di te stesso… Perché quel bisogno di spazi più grandi, di complessità, di silenzi tra persone sempre più laconiche e, a modo loro, dialoganti?

S) Quando comincio a disegnare o a dipingere su una tela di grande formato provo una sorta di eccitazione, come se stesse per cominciare il viaggio che porta dove non si è mai arrivati. Come se a un regista fosse concesso tutto il budget necessario per fare il suo film.
Nella grande tela possono apparire personaggi, situazioni e immagini come fotogrammi successivi e ininterrotti di un film che racconta le ore e i minuti della sua esistenza.
Perdersi nel labirinto di questa immaginazione è forse uno dei segni che caratterizza molta mia pittura.

Z) Perché non hai mai fatto “parlare” esplicitamente le tue figure, d’uomo o di donna, perché le hai trattenute nel non detto, perché le hai rese tanto indispensabili l’una all’altra e così lontane?
S) E’ difficile anche per me trovare spiegazioni razionalmente costruite, a proposito di quella specie di sospensione e di silenzio negli sguardi di personaggi che sembrano cercarsi senza trovarsi.
Quando dipingo non penso ad altro che a fare bene il mio quadro. D’altra parte, la pittura non argomenta, ma rappresenta.

Z) Poi è venuta alla luce, lentamente, l’esigenza di affermare che la pittura non si esauriva in se stessa, ma doveva coincidere con un interesse più vasto, nel quale continuavi a immergerla. Quando ti sei sorpreso a voler dire ciò che pensavi lontano da ciò che dipingevi?
S) Capita spesso, specialmente quando dipingo un quadro a cui assegno una parte importante del mio lavoro. Vivo questi accadimenti con una certa tensione: è il momento in cui il progetto mostra tutta la sua debolezza e ti incammini in un sentiero che non avevi cercato, ma che hai misteriosamente trovato. Sei vicino o lontano? Sei solamente dentro la tua pittura.

Z) Quale è, nei tuoi quadri, il punto di convergenza ideale del pensato e del dipinto?
S) Il dipinto può togliere o aggiungere rispetto a quello che hai pensato e che pensi. D’altra parte il pensiero non è la pittura, e la pittura non è il suo pensiero. Ma non riesco a immaginare come e dove possano separarsi.

Z) Hai mai voluto, per paradosso, far dipendere il quadro esclusivamente... dal dipingerlo? Cioè dalla sola pittura, dal solo talento? Hai mai avuto la nostalgia di un contenuto?
S) Non ho solo nostalgia, ma continuo a dare grande importanza al contenuto sapendo, tuttavia, che dovrà prendere espressione dentro la forma.

Z) Una volta mi hai detto: “Si può fare della pittura pensando anche ad altro”. Che cosa intendevi dire? Che cosa le togli, che cosa le aggiungi?
S) Volevo solo indicare la differenza tra il mio lavoro e quello, per esempio, dello scrittore. Il mio ha anche una componente artigianale. Il falegname mentre esegue con cura il suo lavoro può cantare, può accennare a un’aria fischiettando e intanto pensare alle spese, ai ricavi e altre cose ancora, il suo lavoro non ne soffre, le mani e gli occhi lo seguono con cura. Quando dipingo, governo con attenzione il procedere del mio quadro intanto che, tra me e me, rimugino su questioni che non sono sempre direttamente connesse con il quadro che ho sul cavalletto. Direi addirittura che quelle divagazioni, che parrebbero allontanarmene, finiscono per arricchire la mia pittura.

Z) In quale conto tieni l’affermazione di Sant’Agostino, il quale disse che nessuno crede in qualcosa nella quale non abbia, prima, voluto credere? Tu credi al “credere assentendo”, al dover essere d’ accordo su ciò in cui credi…?
S) Questa affermazione di S. Agostino mi trova sostanzialmente d’accordo.
Devo tuttavia aggiungere che non riconoscerei più me stesso il giorno che non avessi qualche dubbio anche sulle mie convinzioni.

Z) Quando, in un tratto del tuo percorso, una parte della critica riconosceva nel tuo lavoro un’eco della pittura di Bacon - chi diceva contenutistica, chi tonale, o di stile, cioè espressiva - a parte la declamata “indivisibilità” dell’artista, ti sei mai riconosciuto in quel giudizio? Quale incidenza poteva avere sulla tua pittura il riconoscimento, o addirittura la lusinga, di essere “il Bacon italiano”? Sentivi di doverti sottrarre all’elogio per non venir meno, a dir poco, alla tua identità? Come ci si scioglie, insomma, da abbracci come quello?
S) E’ vero, ci sono stati anni in cui non c’è  stato saggio critico che mi riguardasse nel quale non si desse spazio a questo argomento; e questo ha sempre più legittimato un accostamento del mio lavoro a quello del grande artista inglese.
Si può supporre che l’eccessiva insistenza abbia finito per diventare un luogo comune mettendo in luce la debolezza critica di alcuni recensori. Per dimostrare le ragioni di questo confronto si è alterato il carattere stesso della pittura di Bacon, il quale è soprattutto un grande e tragico pittore realista, oscillante tra incubo e spasimo.
Quando viene visto come riferimento della mia ricerca, Bacon stesso è rappresentato come un artista che dipinge la solitudine, il vuoto, il malessere dell’esistenza. In realtà lo scenario che ospita l’immaginazione di Bacon è un altro: in un ambiente da incubo si  agitano, tra cessi e divani, uomini sfigurati da un espressionismo feroce, che testimoniano non tanto della solitudine, quanto di una irriverente, terribile emarginazione.
Se spettasse a me indicare la differenza contenutistica che mi separa da Bacon direi che la sua pittura mette in scena una dimensione tragicamente bella, con una forte visionarietà realista.
Aggiungerei che io parlo di solitudine, dell’uomo che soffre la realtà in cui è immerso.
Ma Bacon è tra i più grandi della pittura moderna, e non sarò certamente io a favorire i giochi, addirittura gli abbagli, delle pur lusinghiere similitudini.

Z) La “riconoscibilità” è un dato integro in tutto il corso del tuo lavoro; oserei dire che anche l’eco cosiddetta baconiana è stata un preciso momento della tua creatività. Da che altro, semmai, hai dovuto, diciamo, difenderti?
S) Ho guardato Bacon, Munch, De Kooning e tanti altri con l’attenzione che si deve ai maestri; questa attenzione su alcuni, piuttosto che altri, può significare che ho cercato nel loro lavoro qualcosa che poteva aiutare la mia pittura a crescere. Ho sempre pensato che la pittura si alimenta continuamente di pittura. Ciò vale, credo, per ogni forma d'arte.

Z) Il clamoroso episodio del pittore giapponese che ha copiato i tuoi quadri, li ha esposti a Tokio, si è guadagnato il consenso della critica e un grande premio nazionale, “finendo sui giornali di mezzo mondo”, ha assunto un valore metaforico che coincide con il tuo disincanto sul valore intangibile, persino sacrale, dell’arte?
S) Si, sono rimasto sbalordito davanti a un fatto senza precedenti nella cronaca degli scandali che hanno segnato il mondo dell’arte.
Il governo giapponese gli ha revocato il premio, l’Associazione dei pittori giapponesi lo ha radiato dalle sue fila, i musei che avevano acquistato i suoi quadri li hanno tolti dalle pareti dove li avevano appesi.
In una vecchia intervista dicevo che “se vogliamo chiederci perché un’opera considerata un capolavoro appare all’improvviso insignificante quando la si scopre apocrifa, dobbiamo capire che ogni possibile risposta non può riguardare, direttamente, l’opera d’arte, ma piuttosto il rapporto con l’arte, cioè la nostra capacità di evocarla, immaginarla, riconoscerla".

Z) Parlavamo di ”riconoscibilità”, cioè del più percepibile linguaggio identitario di un artista. A che cosa la leghi di più, al disegno o al dipinto? Qual è il segno in cui maggiormente ti riconosci?
S) Sono così abituato a mischiare disegno e pittura fuori da ogni regola canonica che mi è difficile indicare quale sia il mio segno. Nei miei quadri spesso continuo a disegnare su campiture di colore, e viceversa ci sono stesure di colore sopra il disegno che a volte si intravede come traccia del percorso fatto dentro il dipinto.
La mia identità di artista la consegnerei semmai a una forte connessione tra disegno e pittura, che recitano, entrambi, la propria parte.

Z) Quali significati attribuisci alla perdita - o addirittura alla rinuncia - del segno, specie quello che disegna prima ancora del dipingere? E’ il trionfo dell’informale, la sconfitta della forma? Eppure ci sono opere, come quelle di Kandinskij, su cui indugi con lo stesso interesse, e lo stesso amore, che riservi a Goya o a Caravaggio. Perché?
S) Le scelte non devono diventare la nostra prigione; deve sempre rimanere aperta una finestra che guarda fuori e vedere come si possa vedere "altro" anche con pensieri, convinzioni, ricerche diverse dalle tue. Ciò che consideriamo estraneo ai nostri convincimenti può, alle volte, arricchirci. Nel mio studio al Circo Massimo avevo appeso un manifesto di Kandinskij per ricordarmi da che cosa possa essere nutrita la mia pittura.

Z) Da che cosa nascono i tuoi spaccati “tematici”: la famiglia, la cena, la solitudine, il dolore? C’era, dentro, psicologia e interiorità, cronaca e storia, realtà e mistero. Mancava la natura. Ma è venuto il ciclo verde, con qualche quadro di nubi, giardini e mari. Perché così tardi?
S) Sono sopratutto un pittore di figure. Quando ho abitato a Carpineta, in mezzo al verde degli alberi e dei prati, ho cercato di capire quale fosse il mio rapporto con la natura, dal momento che ne subivo il fascino senza tuttavia essere in grado di analizzarne la ragione.
Per capire qualcosa di più ho chiesto aiuto alla pittura, e ho dipinto una serie di quadri che rappresentano gli alberi, le siepi, il cielo sopra i cipressi e le grandi querce. Non erano vedute o paesaggi, ma solo ritratti di qualche frammento di natura.

Z) “Allargare e moltiplicare i punti di vista”, dicesti una volta. Ti riferivi solo al vasto quadro che stavi dipingendo o a qualcosa di più generale, con una prospettiva diversa? Mi pare che da quel giorno l’esigenza di quel punto di vista sia ritornata, o sbaglio? 
S) Forse pensavo che fosse arrivato il tempo per ridare energia al mio lavoro, di trovare delle soluzioni che andassero oltre gli schemi formali che mi erano abituali. Ma quelle parole potevano significare anche altro; capire, ad esempio, quanto siano insufficienti gli strumenti di giudizio che adoperiamo per analizzare e governare la crisi di un mondo che cambia a una velocità impensabile.

Z) C’è qualcosa che non va mai perduto nella capacità dell’arte di coincidere con le realtà che attraversa. Documento o trasfigurazione, segno o simbolo?
S) Arte è una parola dal  significato sfuggente e quindi ognuno di noi le attribuisce  ruoli diversi, tutti egualmente legittimi e spesso riscontrabili in quelle opere che universalmente consideriamo Arte.
Spesso un romanzo o un quadro, una poesia o un brano musicale sono recepiti come documenti di valore eccezionale per conoscere e ricostruire, più di qualsiasi altro documento, le problematiche del tempo in cui furono creati.
Queste considerazioni non riguardano tuttavia l’essenza dell’arte, ma quello che l’arte può offrire a sguardi tra loro diversi.
L’arte non può porsi il problema di coincidere con il suo tempo perché essa stessa ne è una parte integrante.

Z) Esiste ancora un valore concreto dell’arte? Qual è? Credi di più alla forza del mercato o alla vischiosità culturale del fenomeno?
S) L’opera d’arte, creazione solo del suo autore, appartiene a chi sa evocarla, riconoscerla, immaginarla: è viva e necessaria fino a quando produce risonanze intellettuali, interiori, culturali che aiutano gli uomini a confrontare i propri con gli altrui convincimenti; diventa inutile e inerte quando, per riconoscerne il valore, ci si affida ai prezzi raggiunti nelle aste o, come in una sorta di Auditel, al numero dei visitatori di una rassegna ben sponsorizzata.

Z) Che cosa, della tua vocazione, ti è rimasto più addosso? Che cosa ha preso altre strade?
S) Siamo, ognuno di noi, la storia della nostra vita: alla fine ci rimane addosso quello che ha messo radici, che ha trovato terreno fertile. E’ capitato a tutti di arrivare a un crocevia in cui si è creduto di poter cambiare direzione. La nostra vita sarebbe stata diversa?
Forse, ma solo come sono diversi i titoli dei romanzi scritti dallo stesso autore.

Z) Ti ho sentito dire che le grandi crisi odierne appartengono alle derive dell’etica, della filosofia e dell’arte, alla pari, se non di più, delle sconfitte dell’ideologia e della politica. Tu guardi con apprensione ai silenziosi, ambigui segnali dell’arte: reputi che l’arte rappresenti lo smarrimento e le difficoltà di questo tempo? Per quali speciali ragioni dovrebbe lasciarsi intimidire, e indebolire, dagli anni che viviamo? Non rischia di essere una posizione neo-romantica, estetizzante, sentimentale?
S) L’arte testimonia del suo tempo; i valori morali sempre più alla deriva, le ideologie che sembrano essersi sgretolate, altre che sopravvivono in stato di allarme e di conflitto, il primato della ragione che pare avere perduto l’antico fascino, la filosofia costretta a riflettere sul tempo breve, la politica che lotta per conquistare il potere, ma poi manifesta tutta le sue difficoltà nel governare una società che non sa, o non vuole, distinguere il progresso dallo sviluppo, le guerre, le religioni, il terrorismo spiegano, almeno in parte, l’entità della crisi che, inaspettatamente, ha investito il mondo nello stadio più avanzato della sua ricchezza. Questa crisi si è riversata, per naturale conseguenza, anche sull’arte che, non essendo una entità metafisica avulsa dal contesto in cui si manifesta, ne porta i segni e manda segnali tutt’altro che rassicuranti!
Non credo che queste mie considerazioni, giuste o no che siano, possano avere qualche assonanza con posizioni di tipo neo romantico o estetizzante. Forse sono da mettere in conto, come dicevamo prima, a ciò che ci è rimasto addosso.

Z) Non trovo esempi di una pittura che non sia stata al passo con il suo tempo. Fellini, guardando i tuoi quadri, chiamò la tua pittura addirittura “filmica”, vide in essa una sorta di chiarimento e di durata del cinema. “Alberto – mi disse – a volte vede come se avesse in mano non un pennello, ma una macchina da presa: dispone le forme, le illumina, crea i piani visivi, li interpone, li fa agire.”
Ricordo che stava guardando “La cena” e forse era influenzato dall’origine stessa di quella inusuale sequenza tematica. Come hai guardato il cinema? Come è entrato nel tuo linguaggio espressivo? Oppure Federico, semplicemente, declamava? Perchè, allora, più di un regista si è rivolto alla tua pittura?
S) In occasione della mia prima personale a Milano, alla galleria Bergamini, nel 1958, Marco Valsecchi adoperò, per la sua recensione, un titolo fin troppo esplicito “Il cinema gli ha insegnato a dipingere”, e mi pare che anche Dino Buzzati accennasse al rapporto tra la mia pittura e il cinema.
E’ curioso notare che a introdurre questo tema del rapporto cinema - pittura nel mio lavoro sia stata una intuizione della critica d’arte milanese. A Roma, la città del cinema, dove frequentazioni, sodalizi e scambi culturali tra pittori e registi potevano suggerire queste contaminazioni, se ne è discusso solo dopo.
Nel 1977, se ricordo bene, Francesco Rosi venne a visitare una mia mostra alla Gradiva di Roma dove esponevo proprio il ciclo della Cena; si fermò a lungo a guardare i quadri in silenzio poi venne verso di me per dirmi che non pensava, prima di aver visto La Cena, che la pittura fosse ancora in grado di competere con il cinema nella rappresentazione di un grande spaccato sociale. Parole belle, che quando mi tornano in mente, mi lusingano ancora.
Oltre ogni filologismo, ma solo per offrire qualche aiuto a chi mi chiedesse un consiglio per guardare in modo corretto un mio quadro, suggerirei di avere lo stesso atteggiamento di pazienza e di attesa che abbiamo quando si entra in sala a proiezione già cominciata; guardare le prime sequenze di un storia che ancora non conosciamo; cercare di capire qualcosa dall’ambientazione, oppure dai personaggi che compaiono sullo schermo senza sapere se sono gli interpreti principali o di secondo piano nella storia del film; non sapere nemmeno se siamo all’inizio o verso la fine.
E’ come nella vita, dove ognuno di noi entra a spettacolo già iniziato. Senza fretta, nel tempo che ci è messo a disposizione, finiremo per conoscere dove siamo.
L’hanno notato i critici d’arte, ne hanno parlato gli uomini del cinema e infine io stesso suggerisco di guardare un mio quadro come fossimo al cinema. Si, Fellini, e tu ne sei buon testimone, aveva visto bene la mia pittura.

Pubblicata da SKIRA 2007 (Cesena, Roma) e 2009 (Palermo)

 

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