albertosughi.com

 

 

Alberto Sughi Al Complesso del Vittoriano, 21 Luglio - 23 Settembre 2007

 

(6 Settembre, 2007) MUVI Musei Virtuali Internazionali

Giorgia Catapano, Alberto Sughi al Vittoriano

ROMA - “Un’avventura stupenda, hai l’idea di arrivare chi sa dove, anche se poi sai che, se tutto va bene, arrivi dalle tue parti”. È così che Alberto Sughi - del quale sino al 23 settembre sono esposti al Vittoriano di Roma sessanta disegni e ottanta dipinti - definisce la realizzazione di un quadro. Le parole di Sughi sono come le sue opere: ci si confronta con una sorta di resa dei conti e si riconoscono percorsi narrativi aperti e densi di significati. La definizione dell’artista, 79 anni, originario di Cesena e romano d’adozione, spiega proprio la sensazione di arrivare a punti nodali dell’esistenza attraverso una rappresentazione del reale. Ma il reale non è qualcosa di esterno, è la realtà espressa dalla memoria, dunque, come il pittore stesso afferma, i suoi quadri sono “nulla di verosimile, nulla di vero”. Può sembrare un paradosso, visto che parliamo dell’esponente di quello che dalla critica è stato definito “realismo esistenzialista”. Ma per capire la pittura di Sughi, si può usare una parola: il ricordo. Le tele di Sughi non si prestano a un’osservazione veloce. È necessario soffermarsi e aspettare il tempo necessario per ritrovare in ognuno una scena in qualche modo già vista, perché già provata, perché se ne è già intrisi. Come non identificarsi con i temi della solitudine, dell’alienazione, dell’incomunicabilità che si crea in contesti nei quali non si è da soli, come nelle città, ma dove parlarsi e comprendersi davvero è un’impresa ai limiti dell’impossibile? I personaggi di Sughi si cercano senza mai trovarsi, sono mossi da una tensione vitale trattenuta e, anche se spinti in luoghi affollati, come i locali notturni e le strade, alla sola presenza degli altri si immobilizzano in una dimensione di chiusura. Ed è un incrocio di sguardi che non si incontrano. L’unico incontro si ha con l’osservatore esterno, chiamato in causa a dialogare con un personaggio che getta il suo sguardo quasi fuori dalla tela come a chiedere soccorso o disperata complicità. Il fatto strabiliante è che si viene catapultati dentro lo stesso quadro. “Siamo, ognuno di noi, la storia della nostra vita: alla fine ci rimane addosso quello che ha messo radici, che ha trovato terreno fertile. È capitato a tutti di arrivare a un crocevia in cui si è creduto di poter cambiare direzione. La nostra vita sarebbe stata diversa? Forse, ma solo come sono diversi i titoli dei romanzi scritti dallo stesso autore”, afferma Sughi nella lunga e intensa intervista rilasciata a Sergio Zavoli e contenuta nel catalogo della mostra a cura di Arturo Carlo Quintavalle (edizioni Skira). I sessanta disegni iniziali, realizzati tra il 1943 e il 1952, testimoniano l’intensità precoce del tratto di Sughi. Sono infatti realizzati sul retro delle bollette o ricevute che la sorella portava al piccolo Alberto, il quale già a otto anni riportava sul foglio le immagini che aveva osservato. Questo procedimento di disegnare non dal vero, ma attraverso il ricordo caratterizzerà successivamente tutta la sua pittura. In seguito entra in gioco un ulteriore elemento: quello dell’appropriarsi della sensibilità dei pittori che più lo colpiscono e che studia con passione - Rosai, Sironi, Fattori, Degas - affinando la tecnica e soprattutto costruendo il proprio modo di pensare e di creare, dunque il suo mondo poetico, il suo sguardo. La realtà che rappresenta è quella popolare, ma non retorica, di una cittadina, Cesena. Gente che si riunisce al mercato, uomini che camminano, disegnati di spalle nella postura di chi dialoga, vecchi, uomini che portano la bicicletta a mano, donne con bambini in braccio, operai a lavoro nelle cave o sulle rotaie, manovali, marinai, giocatori di bocce. Un mondo che non è mitizzato ma che evidenzia negli atteggiamenti e nel silenzio del lavoro o nei gesti quotidiani una individualità e una operosità semplice, il vivere. Dopo una breve fase cubista, di cui sono esposti i due quadri “Il fiasco” (1948) e “Due piante sulla sedia” (1948), Sughi abbandona quella che è considerata la pittura “moderna” per trovare la propria identità e la propria voce attraverso la realizzazione del quadro “La maschera al cinema” (1958). È da qui che la sua pittura acquista forza e unicità. I toni sono scuri, cupi. Disegno e colore sono un tutt’uno, sovrapposti e inscindibili. La tensione è palese. La luce è fioca, all’interno di una sala cinematografica una donna, una maschera del cinema, precede un uomo che sta entrando alla destra del quadro. Gli unici elementi illuminati sono la torcia che la donna tiene verso il basso, rischiarando appena la sua caviglia e la scarpa con il tacco alto, il viso senza volto dell’uomo che la segue, la sagoma dell’uomo seduto in primo piano a sinistra, che con gambe e braccia incrociate osserva evidentemente un film sullo schermo. La tensione è espressa dalla rigidità dei movimenti e dalla chiara intenzione di distacco fra i tre personaggi, evidenziata dalla severità delle loro posture. In un ambiente chiuso, intimo, ognuno guarda in una direzione diversa e, soprattutto, non vuole essere disturbato. Le fattezze dei volti sembrano deformate, grottesche. Tutto appare fisso, immutabile, come la condizione di estraneità che si crea in un contesto cittadino, ai limiti dell’alienazione. Su questa strada si muovono i lavori successivi: tutte le opere, fino al pieno degli anni Sessanta, saranno caratterizzate da una uniformità di utilizzo del colore, che si manterrà opaco, sui toni bassi e rarefatti dei grigi e dei rossi spenti, in una bellissima tensione tra movimento di tratto abbozzato e grande finezza nel cogliere le espressioni di personaggi catturati in momenti disparati e, tutti, distinti da un senso di solitudine e disfacimento esteriore e interiore, in una forma che ricorda l’espressionismo tedesco, ma che è più raffinata cromaticamente, in quanto utilizza colori non urlati ma sobri e dimessi, creando quella patina suggestiva dei locali fumosi. La critica di Sughi non è rivolta soltanto all’alienazione dell’individuo prodotta dall’incomunicabilità urbana, ma anche al potere, come si può osservare nei quadri “Classe dirigente o Politici al ricevimento”, dove i volti degli uomini ritratti sono tutti uguali e ugualmente gonfi, fintamente sorridenti, avidi e sfocati, mentre gli unici elementi messi a fuoco sono i bicchieri disposti su un tavolo e la stanza di un ricevimento ufficiale e vacuo. Questo distacco tra figure umane indefinite, stagliate contro ambienti chiari e netti, crea un contrasto con gli oggetti che caratterizzerà anche la successiva fase pittorica di Sughi, il quale conoscerà un’ulteriore evoluzione, o meglio sperimentazione di tecnica pittorica, accostandosi a un “simbolismo oggettivo”: nei dipinti “Ritratto nella stanza”, “Uomo tra gli oggetti”del 1967 e “La stanza di un uomo” del 1968 (che è il quadro che rappresenta la mostra), gli oggetti prendono via via talmente forza da escludere perfino la figura umana. Diventano strumenti di difesa. Il possesso delle cose ha la meglio. La sensazione è un vuoto sospeso inesorabile e senza senso. L’uomo non esiste più, talmente sopraffatto dalla realtà degli oggetti da non essere più egli stesso reale. Una via di fuga può essere a questo punto la ripresa di contatto con la natura e in effetti i quadri dei primi anni Settanta mostrano personaggi ambientati in giardini e paesaggi verdeggianti. Ma anche la natura è espressa in maniera inquietante: diventa minacciosa, surreale, tragica ai limiti del comico, come in “Giardino all’italiana” (1971), dove un uomo è a quattro zampe in un giardino fin troppo curato, dunque irreale e metafisico, e “I giochi nel giardino” (1973), nel quale una donna è a cavalcioni di un uomo anche qui ridotto a quattro zampe, con il viso inquietantemente serio. È nel 1975 con il ciclo della “Cena” che Sughi realizza i suoi quadri più realisti. Egli stesso afferma che “distrugge la realtà dall’interno”. Rappresenta una posizione esistenziale sull’estraniamento collettivo. I personaggi riuniti in uno spazio vuoto, scarno, sono tutti colti nell’atto di mangiare, sono in piedi, vestiti in modo borghese, hanno fattezze dure e respingenti e creano disgusto e lontananza. Tra di loro non c’è nessun tipo di relazione umana. È in questo quadro che l’effetto straordinario della pittura “cinematografica” di Sughi si compie appieno. Da qui il percorso della mostra, curata - lo ricordiamo - da Arturo Carlo Quintavalle, si snoda quasi a ritroso. Si assiste a una sorta di recupero della memoria più antica, quella famigliare, con opere che ritraggono la figura del padre e situazioni di intimità domestica, pregnata di inquietudine ma anche di riappropriazione del passato, con tele che restituiscono la verità più onesta e immediata di scene recondite. Vi è poi la riflessione sulla solitudine e sul mestiere del pittore con “La sera del pittore” (1987-1988), nella quale affiora un senso di angoscia e di disperazione rassegnata. La riflessione sul senso del dipingere trova raffigurazione estrema nelle opere “Andare dove?” del 1991 e 1992. In esse, in un contesto astratto di verdi e rossi, una figura solitaria è sormontata dall’accendersi dei toni ma non ha direzione, si percepisce appena nello sfondo. Siamo nel clima politico della caduta del Muro e delle ideologie. “Addio alla casa rossa” del 1992 esprime proprio questo profondo senso di disorientamento. Ritorna anche la riflessione sugli oggetti, con il ciclo “Indizi e frammenti” tra il 1995 e 1996, con scene nelle quali vi sono una sorta di indizi per risolvere un ipotetico delitto, quello figurato della perdita delle cose che appartengono alla vita. Emergono le atmosfere dei locali notturni, dei muti suonatori di piano, delle donne con lo sguardo lontano e perso del primo periodo, ma con una luce più chiara, con il disegno più netto nel colore. Il ciclo successivo “Notturno” (1999-2003), come spiega lo stesso Sughi nasce dalla riflessione che “si era fatta notte nel nostro tempo, una notte che lasciava le figure sole e che magari, con il divertimento notturno, con lo sguardo, con il gioco, cercavano di allontanare questo sentimento di fine e di impossibilità di ritrovare tutto quello che avevamo perduto”. Il ciclo si chiude con “La stanza del tempo”, dove una coppia stanca non ha più niente da dirsi: un uomo che legge e una donna che fissa nel vuoto. “La sete” (2003) è l’opera che sancisce uno scatto, un gesto che rappresenta la voglia di dissetarsi di un uomo, il bisogno disperato e urgente di nuova vita. Non a caso il quadro è stato scelto come copertina di una rivista americana di poesia. Le ultime tele esposte sono le più recenti, realizzate nel 2007. C’è un ritorno al disegno, su grande formato. Le tele sono dipinte a rovescio, grandi campiture di bianco lasciato grezzo sono percorse da immagini che raffigurano la guerra in Iraq, con la strage di Mossul: un insieme di corpi ammassati e una donna che protegge un bambino per non farlo assistere all’orrore; una scena di violenza domestica: un uomo che si scaglia contro una donna mentre due bambini si riparano in qualche modo; infine un uomo crocifisso mentre una donna tiene in braccio un bambino e un altro uomo chiede la carità. Immagini forti, espressive e cariche di significato. Qual è il suggerimento per guardare i quadri di Alberto Sughi? Egli stesso suggerisce di “avere lo stesso atteggiamento di pazienza e di attesa che abbiamo quando si entra in sala a proiezione già cominciata; guardare le prime sequenze di una storia che ancora non conosciamo; cercare di capire qualcosa dall’ambientazione, oppure dai personaggi che compaiono sullo schermo senza sapere se sono gli interpreti principali o di secondo piano nella storia del film; non sapere nemmeno se siamo all’inizio o verso la fine”. E conclude: “è come nella vita, dove ognuno di noi entra a spettacolo già iniziato. Senza fretta, nel tempo che ci è messo a disposizione, finiremo per conoscere dove siamo”. Alla fine della mostra, appunto, si conosce un grande pittore.

Giorgia Catapano (aise/muvi.org)

 

 

 

 

albertosughi.com

 

mostre/exhibitions/onLine