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Antonio Del Guercio

Alberto Sughi: forme e sensi

"Ce ne sont pas les idées ... qui sont
génératrices des formes; ce sont les
formes qui sont génératrices des idées."
Ivanhoé Rambosson, Le modelé
et le mouvement dans les oeuvres
de Rodin. La Plume, 1 er, jullet 1900"

Per la seconda volta in pochi mesi - per ragioni che questo testo chiarirà - sento la necessità di dare ad apertura di discorso l'asserzione radicale con la quale, in occasione della mostra che a Parigi apri' nell'arte il ventesimo secolo, un acuto critico francese allora giovanissimo difese Rodin da troppe letture strettamente contenutistiche, ostili o apologetiche che fossero. Avevo infatti usato quella epigrafe nello scorso novembre, nella presentazione in catalogo di una mostra parigina di opere, recenti e non, di alcuni tra i più significativi artisti francesi dell'area delle figurazioni critiche europee.
Un'area che, presente soprattutto in Francia, in Italia e in Spagna, trova anche consonanze profonde con la vicenda pop inglese, che è giusto richiamare qui poiché, apparsa anteriormente a quella americana, essa è generalmente assai più vicina alla visione europea della complessità del nesso passato-presente-futuro nel mondo moderno che non all'agile surfing pellicolare di molta arte pop americana sulla lucente esteriorità dell'iconosfera urbana.
A questa diversificata area figurativa infedele al programmatismo cogente degli ismi, Alberto Sughi ha lungo l'intero suo percorso conferito un apporto essenziale, primario, sempre teso sul filo d'una ininterrotta ricerca della perspicuità del proprio linguaggio. E non direi tanto che Sughi "appartiene" a quest'area, quanto piuttosto che ne ha precocemente e originalmente elaborato alcuni degli aspetti essenziali.
Ora accade che per Alberto Sughi come per René Monory per Gilles Aillaud come per Peter Blake, per Edoardo Arrovo come per Paul Rebeyrolle, Leonardo Cremonini come per l'americano eterodosso Eric Fischl, - e sono solo alcuni esempi - il discorso critico mentre s'appunta, doverosamente, sulla rilevanza della rappresentazione fenomenologica messa in campo nelle loro opere, troppo spesso appare insufficientemente attento alla oggettivazione concreta, e dunque alla originale specificità, delle strutture formali che portano i reali e non generici significati di volta in volta offerti al riguardante. Quasi che le tematiche di linguaggio, di forma, fossero esclusivo e indivisibile dominio di altre aree dell'arte contemporanea. Per tutta un'area artistica decisiva entro il paesaggio artistico della nostra epoca, il richiamo che Rambosson era già costretto a fare per Rodin un secolo fa non sembra esser stato sempre considerato come altrettanto pertinente che per qualsiasi altra area.
Al centro di questo equivoco critico sta forse una insufficiente attenzione alle particolari modalità espressive delle diverse opzioni figurative in un'epoca che è anche quella delle - anch'esse fra loro diverse - opzioni astratte. Il che è dovuto all'idea, del tutto fuorviante, che le più acute figurazioni critiche europee siano sorte e si siano articolate come risposte alle opzioni astratte, limitandosi a una netta estraneità della pura rivendicazione del dato rappresentativo.
Non è cosi. Se esse rispondono a qualcosa - e in effetti lo fanno, e spesso anticipatamente - sarà semmai all'ottimismo merceologico di una parte significativa dell'arte pop americana. Ma soprattutto direi piuttosto che esse sorgono, e iniziano ad articolarsi nelle loro prime fasi, in interposta locuzione critica con altre diverse istanze presenti nell'arte contemporanea.
La cosa è particolarmente evidente nel caso di Sughi. Basterà rilevare come nelle sue prime espressioni mature sull'ultimo scorcio degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, appaia ben dichiarata la netta estraneità della sua opzione figurativa alle ragioni che davano sostanza sia alla scelta figurativa di Renato Guttuso sia al versante figurativo della operosità di Corrado Cagli. Né la tematica, posta da Guttuso, di una riforma realistica del cubismo innestata su una riconnessione con i grandi casi di romanticismo e di realismo ottocenteschi, né quella, posta da Cagli, di un'aperta sperimentazione orientata verso mitografie ed evocazioni archetipiche, hanno riscontro nella scelta fatta allora da Sughi. Vi appare insomma evidente una condizione legata non al dibattito post-bellico tra figurazioni e astrattismi(il plurale, anche se da molti trascurato, è di rigore anche per il secondo corno di quell'alternativa), ma a ben differenti tematiche, attive nel contesto europeo tra gli anni Trenta e la fase immediatamente post-bellica. Tematiche che si risolvono diversamente nei singoli protagonisti, in figurazioni come in Giacometti o in Germaine Richier, o in non-figurazioni come in Michaux o Fautrier.
L'interlocuzione e la risposta di Sughi appaiono difatti piuttosto rivolte a determinate modalità della struttura formale sia nelle esperienze artistiche che si fondano su un rovello critico attorno alla figurazione, sia in quelle che nell'arte informale di più drammatico o tragico sentire dànno luogo a linguaggi che correttamente si debbono definire "figurali: non propriamente figurativi, insomma, ma pur del tutto estranei ai diversi linguaggi astratti dell'arte moderna.
In altri termini, nella netta opzione figurativa da lui compiuta l'alterazione espressiva del rappresentato, ossia la definizione del linguaggio, si dà subito come forma che produce e manifesta una idea-sentimento di disagio esistenziale, non risarcibile né dall'ipotesi di un realismo della pienezza umana riconquistata per decisione ideologica, né da un viaggio nelle mitografie possibili, né dalla purezza della formalità astratta. Al tempo stesso, questa idea-sentimento è declinata sul tema di una resistenza, pur segnata da un pessimismo della ragione, ai processi di disumanazione.
Si accampa così e si manterrà nel tempo nell'opera di Sughi un moto ininterrotto nel rapporto tra corpi e ambiente; tra luci e ombre; tra livello di definizione e di circoscrizione di quei corpi e loro dissipazione entro uno spazio renitente a ogni calcolabile geometria; tra monocromatismo e insinuati cenni di colore. Attraverso le variazioni formali che questo moto ininterrotto produce, la sua ricerca trova le proprie soluzioni in una ulteriore e diversa spazialità espressiva rispetto alle precedenti manifestazioni, sia del ramo esemplarmente rappresentato dall'esperienza di Giacometti sia del ramo informale.
La sostanziale rilevazione che deve essere fatta per la ricerca e per le soluzioni di Sughi è che, entro questa incessante dinamica, la struttura e dunque il senso dello spazio figurativo non sono determinati una volta per tutte, come avviene in alcuni dei casi più esemplari dell'informale, dove l'angosciosa inarticolazione dello spazio dice l'implacabile immutabilità d'una condizione umana, e al tempo stesso ne propone, entro i propri grumi e grovigli, l'indecifrabilità. L'intera vicenda di Sughi si presenta dunque come una incessante elaborazione del linguaggio, che apre e chiude quasi in sistole e diastole, e ogni volta in modo diverso, le circoscrizioni formali dei corpi e le strutture spaziali. E queste mutazioni si compiono in risposta allo svariare e al mutare, entro la dialettica storica e culturale, di una condizione esistenziale non pensata come bloccata entro una immutabilità categorica.
Sul filo di questi svolgimenti, il suo percorso, dalle forme sfioccate di molte opere degli anni Sessanta, quasi d'improvviso si rapprende in più nette condensazioni della forma. E sono, non a caso, opere nelle quali i poteri del mondo sono chiamati in causa. Bloccata consistenza di oggetti, più dirette evocazioni ambientali, espliciti accenti di deformazione espressiva nei volti, luci stridenti, fanno seguito, e controcanto, ai letti disfatti, ai corpi fantasmatici, ai fumosi notturni anteriori o paralleli a queste nuove sintesi formali che introducono nuovi significati ? nuove idee ? nella sua tematica.
Entro la quale meritano una considerazione particolare anche certe nature morte ? una pianta di ficus, delle scarpe, oggetti di arredamento d'interni ? talvolta entro composizioni nelle quali pure intervengono dei personaggi. Sono forme dense, rapprese, di netta ed esatta evidenza figurativa, che punteggiano a intervalli irregolari, ma con un peso non trascurabile, la ricerca di Sughi. il tema dell'uomo di problematica presenza sfioccata entro la cupa lotta dell'ombra contro gli spot di un ambiente notturno, cede qui il posto al tema di una assenza, non smentita nemmeno quando l'opera pure accoglie la presenza fisica di figure umane.
Precoce e netta è stata la scelta di Alberto Sughi nella direzione d'una tematica esistenziale intrinsecamente metropolitana. Non l'ingorgo delle apparenze esteriori, non le addensate fenomenologie dell'iconosfera urbana hanno tuttavia distinto questa scelta, ma, appunto, l'incidenza profonda della vita metropolitana nel cuore stesso dell'esistenza.
Se un riferimento storico fondamentale può essere fatto per questa scelta, è la víe moderne, come a metà dell'Ottocento la oggettivò Baudelaire nella poesia e nei pensieri critici quelli di critica d'arte in primissimo luogo, e come negli anni Trenta del Novecento Walter Benjamin ne riattraversò le immagini: megalopoli, giornalismo, folla, pubblicità stradale, merce, fine del passeggio "disinteressato", notte, reificazione del corpo umano, quello femminile in primo luogo.
Come altri protagonisti di tutto un ramo centralissimo della storia dell'arte moderna e contemporanea, e con soluzioni proprie di forma e dunque di idea, Sughi ha operato sin dalla primissima maturità dentro tematiche tipiche dell'arco storico tuttora aperto della víé moderne. Un arco storico che non potrà certo essere chiuso per decreto dalle contraddittorie e talvolta dilettantesche teorizzazioni sul postmoderno, espressioni per lo più di una meccanica trasposizione della ben presente realtà postindustriale.
E' accaduto inoltre che negli anni Settanta di colpo Sughi abbia aperto una serie pittorica che dal colore dominante
si indica come "verde", e che non propone ambienti o luci di metropoli ma frammenti di natura, tra alcune vedute slargate non prive di qualche cenno a Boecklin e certe porzioni di giardini nei quali talvolta s'accampano isolate figure in posa insolita, inaspettata.
In questa serie, della quale distesamente ebbi a trattare in occasione d'una mostra in Toscana dieci anni fa, qui vorrei soprattutto segnalare la tematica di melancholia(del genere di quella che nel Cinquecento venne definita heroíca da Melantone) dalla quale è pervasa.
Dalla particolarità specifica del disagio esistenziale e dalla situazione di perdita e/o assenza, espresse sul terreno d'una connotazione metropolitana incisivamente allusa più che descrittivamente riscontrata, qui Sughi passava a un suo dialogo col versante simbolista-metafisico dell'esperienza moderna. In coerenza con la sua vocazione fondamentale, questo dialogo non metteva capo ad alcuna restaurazione di mito, sia pure di mito critico o desolato, né ad alcun rimpianto di mito perduto. Quella melancholia si specchiava infatti in una natura intesa non come luogo della germinazione del mito o della riapparizione degli Dei dimenticati, ma come luogo entro il quale la presenza umana segnata dalla víe moderne rivelava una propria incongruità, una propria radicale incapacità di abitarla.
Più tardi, nella seconda metà degli anni Ottanta, quella momentanea presa di distanza dalla natura urbana artificiale e quell'apertura sulla natura naturale tornava in opere nelle quali comparivano gamme nuove. Gamme chiare che, nella penombra dello studio, fra l'interno e lo squarcio di natura esterno, nel dorato crepuscolo d'una strada lungo i ruderi o nella serale contemplazione delle presenze naturali sulla soglia dello studio, si attenuavano nella palpitazione dell'immagine. Un tema ancora di melancholia, ma di più diretta e personale meditazione che non nelle pitture "verdi". Un tema di confessione intima della solitudine inerente al fare arte, che fatalmente si
riallacciava al filone degli interni di studio con i quali a partire dal romanticismo l'arte moderna ha periodicamente sottolineato - con una iconografia di auto-committenza - la propria difficoltà d'essere socialmente intesa.
Sughi apriva cosi un ulteriore capitolo nel quale, in una fase successiva, le nuove gamme squillanti si davano non più nella soffusione fomentata dalla isolata meditazione, ma ormai decisamente accese mentre le forme che esse animavano s'andavano situando in uno spazio sempre più oggetto di esplicita decostruzione; e il termine s'intenda qui nell'esatto senso analitico nel quale è impiegato nel più generale dibattito teorico attuale.
Un dato analitico, sino allora riassorbito entro la rifusione organica dell'opera, prendeva campo aperto nella pittura di Sughi, dando esito nuovo all'interrogazione esistenziale e culturale (la pittura, il suo significato, il suo destino) dominante entro la nuova melancholia. E lungo questo filo di ricerca, s'andava svolgendo una tematica che via via si faceva sguardo ravvicinato e abbacinato a mobili forme arboree. Per poi riannettersi - ma di questo dirò a proposito delle opere più recenti - luoghi della urbana solitudine.
Naturalmente, l'aspetto analitico di queste opere di gamme accese e di risentita decostruzione dello spazio è quello che ci si può attendere da una pittura che in nessun momento della propria storia ha smentito la propria tensione verso l'intervento nel mondo, la propria netta vocazione transitiva. Nessuna concessione, dunque, agli aspetti auto- referenziali delle tendenze contemporanee che si definiscono come analitiche. Si tratta invece di una riflessione operativa sulle strutture di base del proprio linguaggio pittorico, esibite nelle loro articolazioni formali, ma simultaneamente proiettata sull'orizzonte psicologico e culturale della vie moderne nei punti critici del vissuto concreto dell'artista.
Posto di fronte a quello che Italo Calvino definiva come "oceano della oggettività", il soggetto di cui parla la pittura di Sughi non si limita a respingere il proprio annullamento in esso, come è in una parte cospicua dell'arte pop americana. Esso rivendica la propria presenza nel mondo rifiutando la passiva presa d'atto d'una iconosfera urbana cosii intasata da segnali da rendersi afona, e d'una città priva di visibili valori simbolici e comunitari, ma ridotta a "puro sistema viario", a spazio deculturato, come ha bene mostrato l'ottimo lavoro di Joseph Rikwert che nell'edizione italiana ha per titolo L'idea di cíttà.
Su questa via Sughi torna dunque nel suo più recente lavoro a trascegliere entro quella iconosfera alcuni luoghi, alcuni oggetti, alcune figure, gli uni e le altre segnate da assorta solitudine; e saranno di volta in volta, isolatamente o raccolti in insiemi compositivi, un cappello, un angolo di bar, qualche sedia, qualche bottiglia, una insegna, una donna, un uomo, qualche donna, qualche uomo, la sottolineatura di un particolare d'abbigliamento o d'arredamento, o poco più. Trascelti, estrapolati dal generale ingorgo e dalla afonia che esso genera, questi ambienti iconograficamente rarefatti e gli oggetti e i corpi che li abitano si caricano di senso forte, in una vera e propria anti-retorica monumentalizzazione.
Sono evidenti i nessi profondi che collegano questi esiti più recenti ad altre fasi della sua opera, in particolare sul terreno delle scelte iconografiche - scelte al cui proposito sarà bene aggiungere -, alle considerazioni che ho già fatto a loro riguardo, che sono, anch'esse, scelte formali.
In queste opere recenti, ci si trova tuttavia di fronte a un passaggio formale, e dunque di poesia e di idea, nuovo e di cospicuo valore.
i corpi infatti appaiono contrassegnati da una diversa consistenza plastica rispetto a quelli di altre fasi del lavoro di Sughi, quando in parte si sfioccavano sotto l'impietosa azione della luce e in parte si riassorbivano entro le tonalità diffuse dello spazio. Adesso essi paiono quasi aggettare, e una stereometria piu' decisa e un piu' netto risentimento del volume li caratterizzano.
In coerenza con queste nuove soluzioni, tutta intera l'articolazione dell'immagine offre in ogni suo particolare una sintesi plastica entro la quale si addensa una volumetria essenziale, non di disegno esteriore ma di interno senso della forma. E il peso, o per meglio dire il gravame dei corpi formalmente addensati si offre immediatamente come risultato di un complesso e sottile gioco espressivo.
Si potrebbe anche dire che la " dimensione d'ingombro dei corpi", che in un suo testo memorabile Francesco Arcangeli aveva presentato come una sorta di costante jakobsoniana dell'arte del passato in Emilia, trovi qui una sua riapparizione arrovesciata di senso. 0, se si vuole, riproposta dall'interno di una condizione esistenziale fatalmente ben diversa da quelle alle quali Arcangeli faceva riferimento: è detta qui infatti una condizione che mantiene il proprio deciso riferimento al disagio esistenziale e alla dialettica tra la permanente possibilità dello scacco e una non retorica né euforica resistenza del soggetto. Una dialettica che aveva già visto il tema della "dimensione d'ingombro dei corpi" -fisica e psicologica - collocarsi negli anni Trenta all'interno dei dibattiti e dei contrasti entro la costellazione culturale e artistica che tra gli altri include a vario titolo Bataille, Benjamin, Klossovski, Giacometti e Balthus. Una dialettica con la quale Sughi si confronta in una situazione certo diversa da quella degli anni Trenta, e alla quale egli propone la propria risposta.
In queste rimarchevoli opere recenti, questa risposta si concreta infatti, come ho cercato di indicare, in immagini segnate da un'addensata essenziale consistenza plastica. Si veda dunque come rispetto alle proposte della costellazione pre-bellica tra il tormentato smagrímento dei corpi di Giacometti e la bloccata meccanicità di quelli del primo Balthus -, questa risposta sia nuova e diversa. Al tempo stesso essa prende nuovo e spiccato rilievo entro l'area delle figurazioni critiche europee, per il suo fondarsi anche su quello che si è tentati di definire - con un ossimoro che credo legittimo - come il normale paradosso dell'arte: il potere, che essa può prendersi, di incarnare in una robusta e tattile consistenza plastica della forma, in una bloccata forza di presenza, l'inversa condizione di un'assorta assenza, o distanza, da riti sociali nei quali vitalità e socievolezza subiscono una derisoria simulazione.

Antonio del Guercio

(Rome 1999)

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